Devi incontrare Michele Iodice, mi dice Roberta Denti, e mi invia materiale sulla sua mostra Afrodisia. Vengo colpita dal colore e dalla rappresentazione di un Eros libero e giocoso, spudorato. Le indicazioni di Roberta sono di destino e allora volo a Napoli.
Ci incontriamo con Michele Iodice per la prima volta davanti all’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Porta un cappello, un vestito elegante e moderno e il volto abbronzato sotto la barba brizzolata. Ha degli strani auricolari che poggiano fuori dalle orecchie e il telefono, tra amici, collezionisti e artisti, suona spesso.
Inizia così un viaggio tra Napoli e Milano che non finisce ancora, alla scoperta di questo artista che incarna la frase di Jerry Saltz: Making art is a behavior. Not a practice.
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Michele Iodice nasce e vive a Napoli, alla Sanità «un pezzo di Napoli che ancora esiste, che persiste, che dà il senso della città. Una città che ha in sé elementi pagani e cristiani, dove le religioni si fondono in un mix di credenze e testimonianze antiche, dove c’è questo senso di vita e di morte. Non sto dicendo nulla di nuovo, ma è legato ad un concetto della vita della città, il fatto di adattarsi a quelli che sono gli eventi della vita» dice Michele.
Da questo quartiere proviene anche la sua famiglia: un nonno maestro compositore e direttore d’orchestra, l’altro farmacista, suo padre impiegato e madre casalinga che avranno tre figli, Michele e due sorelle «una più grande e una più piccola, con cui ho un bellissimo rapporto, ci vogliamo bene»
La grotta
Saliamo nella sua macchina, per terra ci sono rami e cavi, e ci lanciamo nel traffico anarchico di Napoli verso la Sanità. Su e giù per vicoli fino ad arrivare davanti al mastodontico portone.
Entriamo ed è grande lo stupore. Siamo dentro una grotta molto alta e profonda. All’ingresso ha una parte a cielo aperto e la luce del sole colpisce una palma rigogliosa. In fondo un occhio gigante domina la scena. Illumina e guarda, invita a entrare in questo mondo. Al centro c’è un tavolo monumentale e tutto in torno sculture, gessi, lampade. A un lato due angeli sorvolano sopra un pianoforte a coda mentre altissime porte con degli specchi fanno eco alla realtà.
In quello che era un deposito pieno di detriti, di cose abbandonate, di guano e di topi, mentre gli amici che portava a vederla scappavano via terrorizzati, Michele ha visto la bellezza.
La grotta ha più livelli. Scendendo la prima rampa diventa laboratorio artistico, magazzino teatrale, con quantità di ferri, rami, serbatoi, lame. Giù ancora e la grotta diventa salotto segreto, con divani, lampade, sculture. Tre livelli di coscienza e ad ogni livello tutti gli anfratti. Dalla luce del sole alla profondità viscerale.
Il teatro e la scenografia
Michele Iodice parte dal retroscena teatrale «Mi piace essere l’artefice, costruire, ma non comparire». Fa teatro di figura con le marionette, i burattini, le ombre. A ventiquattro anni va a lavorare al museo Archeologico e, avvicinandosi all’animazione come tecnica didattica per comunicare con i ragazzi, inizia a lavorare con i pupi napoletani all’insegna dell’ultimo puparo presente a Napoli. «Montavamo il teatrino di legno con i chiodi e dopo che avevi fatto lo spettacolo, con dei pupi che pesavano trenta chili dall’alto di un ponte, dovevi smontare tutto e raddrizzare i chiodi. Non era quello che volevo ma lo facevo perché ho sempre pensato che bisogna conoscere la storia prima della rivoluzione».
Viene poi assunto dal museo come funzionario direttore di musei e inizia a lavorare con gli adulti e con altri artisti. «Io ho sempre amato collaborare con altri artisti. Ho curato la prima mostra al museo di un artista tedesco e continuo ancora oggi ad avere questo scambio.
Forse uno dei miei limiti sia questo di non essere un artista ossessivo, non faccio sempre la stessa cosa. Io vario dal design, alla scultura, la fotografia, la scenografia. Ho sempre considerato interessante l’aspetto rinascimentale dell’artista. L’artista che si misura su vari campi. Che spazia. La curiosità è il sale della vita. Se tu non sei curioso sei una noia mortale, mantieni il corpo, lo porti avanti».
A volte lavora su una idea e altre volte trae ispirazione dai materiali. Così è successo col grande occhio della grotta, nato da un tavolo trovato per strada che somigliava a un iride. «Non m’ispiro al tormento. La mia ispirazione la cerco attraverso la curiosità e l’osservazione. Mi piacciono le persone, gli occhi, il comportamento. Se posso sono taciturno, sto lì e osservo. Poi mi relaziono, ma mi piace capire la modalità e il proprio pensiero, questo dopo si trasforma in conoscenza, in amicizia.»
Affascinato sin da bambino dalla bellezza dei palazzi distrutti che vedeva camminando alla Sanità, Michele sviluppa l’attitudine a salvare l’oggetto abbandonato, a rimetterlo in scena, farlo ricomparire nella ruota del tempo ed insegnargli un’altra lingua. Attitudine accentuata dal lavoro al museo, dove anche un piccolo pezzo può cambiare la storia di un luogo, e che Pinotto Merlino definì ‘la pietas dell’oggetto ritrovato’.
«Il luogo è determinante, ti dice, ti parla, ti indica e ti dà anche le misure. Se è un luogo basso, alto, largo, stretto, lungo, corto, tutto questo scaturisce un’impressione per te che entri. Questo anche con le scenografie».
Scenografia come quella che andrà in scena in questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano per l’opera R.A.M di Edoardo Erba con regia di Michele Mangini. Scenografia che è una vera e propria installazione, nella quale i serbatoi che avevo visto uno sopra l’altro nella grotta, diventano scultura che si confronta con una parte cromata video e luce. Una storia dentro la storia ambientata nel 2120, nella quale una donna caduta in disgrazia deve vendersi la memoria per potere vivere, memorie che vengono acquisite dalle giovani generazioni e che lei dovrà ricostruire.
L’arte
Nel ’92 la mecenate Graziella Leonardi Bontempo propone a Iodice di fare una mostra e inaugura a Monte di Dio Star di casa. Un’installazione su tutto un appartamento dismesso dove l’artista ha disegnato, tagliato sculture e mobili per ogni ambiente.
Iodice crede che l’arte agisca anche a livello inconscio sulla vita di chi ne viene esposto, di chi non la cerca. L’arte permea la società attraverso l’architettura, la bellezza, un pensiero che circola e arricchisce la vita di tutti portando nuovi stimoli. «Vivere in un vecchio quartiere della città ti espone a una grandiosità che in qualche modo ti coglie. L’Italia è bella sì per la natura, ma è bella per l’architettura, per quello che gli artisti sono stati capaci di proporre».
Gli piace il cubismo, il futurismo, artisti come Mondrian, che nel passato lavoravano sul figurativo e poi sono arrivati a delle sintesi. Gli chiedo come si fa a riconoscere cosa è arte: «Per prima cosa ti deve dare un’emozione. E poi anche il lavoro che c’è dietro, la sincerità, la composizione. Alcuni artisti giovani oggi ripetono le scoperte. E’ come un effetto speciale che si ripropone ogni volta, allora non è più speciale».
Arriviamo alla mostra che ci ha fatto incontrare: Afrodisia. Di Afrodite, dea dell’amore e della bellezza / piccola città greca / erotismo esagerato.
Afrodisia regione dell’umano. Forza vitale primordiale che Michele Iodice esplora con la sua opera e che Paolo Giulierini, direttore del Mann, ha chiesto a Iodice di portare a dialogare con le opere che si trovano all’interno del Gabinetto Segreto, la sala del Mann dedicata all’Eros.
«C’è una scultura molto interessante lì, dove c’è questo indumento sotto il quale s’intravede l’erezione attraverso il drappeggio che viene modificato. Nell’eros conta molto quello che non vedi, che immagini. E’ questo che accentua l’erotismo, altrimenti si rischia di entrare nella pornografia, nella meccanica. L’atto sessuale, infatti, è meccanica, la cosa che cambia è la attesa, il pensiero, la costruzione di un qualcosa.»
Eleganti fauni disegnati su sfondo azzurro si relazionano in un’orgia di leggerezza acrobatica. Poggiano uno sull’altro a catena con diverse parti del corpo e si baciano, si toccano, si leccano, si incastrano. Sculture in filo di ferro raccontano i corpi umani, il sesso, l’autoerotismo. «Dell’autoerotismo non si parla mai, sembra quasi una cosa banale, invece non lo è. L’eros è una cosa complessa. Da bambino esploravo senza sapere, naturalmente, cosa fosse l’erotismo. Inseguivo una sensazione e nell’eros ci mettevo quelle che erano le mie cose di piacere. Io adoro la frutta e ricordo che mi strofinavo le ciliegie sul corpo e mi eccitava moltissimo. Oppure tornavo a casa da scuola e a volte mi spogliavo e andavo sul letto di mia madre, che aveva un copriletto di seta, e io salivo da una parte e mi strofinavo fino ad arrivare dall’altra parte, così fino a quando avevo scoperto di avere macchiato il copriletto senza sapere perché».
La casa di Michele è circolare. Il pensiero e il desiderio non inciampano. Le vetrate fanno vedere tutta Napoli dall’alto della Sanità e la brezza del mattino fa volare le tende. La casa ha un teatro. Un teatro vero e proprio che guarda verso il salone che si affaccia sulla cupola illuminata della Chiesa della Madonna del Buonconsiglio. Michele prende il caffè, annaffia i fiori nel giardino e programma la giornata. Cammina veloce e rallenta negli incontri. Conversa e ascolta. Il tempo e lui sono alla pari. Lo spazio invece gli si arrende, si dona al suo sguardo, alla sua fantasia, alle sue mani. I suoi antenati si fondono in lui: Michele Iodice, alchimista compositore di mondi.
Mercedes Viola