Numero e Narciso
La vanità degli artisti o presunti tali è una peste del nostro tempo. Lo è non tanto perché l’ arte non abbia mai sofferto in passato della inevitabile compresenza tra geni e ciarlatani. Tale compresenza non ha mai innescato processi di scadimento del gusto cosi vasti e diffusi. E non si tratta come taluni sbrigativamente fanno di dare la colpa ai social o a nuove forme di edizione più facile o disponibili, no si tratta di altro, e più profondo. Per la prima volta, per motivi che affondano le radici in processi che vanno dal primo novecento al ’68 a oggi, con la qualifica di artista la società dello spettacolo (braccio “armato” della società dei consumi) va condensando la “realizzazione” di un io vanitoso e ipertrofico, di un narciso che si bea della pura legge del numero come conferma della sua prestazione.
Figli di Numero e Narciso (figli di N.N.) i presunti artisti, trascolorano da figurine da social a personaggi tv a fenomeni da molti follower, senza che vi sia densità o qualità dell’opera. Recenti fenomeni migrano dalla Società dello Spettacolo alla presunta “poesia” – e senza vergogna alcuna nella patria di Leopardi e Ungaretti- accolti da presunti festival culturali, da presunte pagine culturali e da presunti editori ammalati e fradici della stessa sudditanza a N.N.
Non c’è rimedio a tutto questo ? E davvero esiste una parte sana, non infettata da N.N.? Come sempre la realtà è una dura impresa di chiaroscuri, di grigi, di semi ambiguità. Una dura lotta dove però accadono e si possono pure cercare verifiche e passaggi di valutazione. La torma dei figli di N.N., ad esempio, si aggira con una certa nevrosi per il potere e non sopporta chi non lo identifica esattamente allo stesso modo. Essendo figli di N.N. non rispettano nessun padre, si credono padri e madri di se stessi, vivono un contemporaneo angosciante. Non si interessano che alla loro medesima opera. I figli di N.N. credono a forme di conferma ridicola e superficiale, intercambiabili per ognuno di loro. La fama, triste scimmia e malacopia dell’eterno, diviene la loro droga e la loro contemporanea condanna, il loro triste asfittico circo. Si beano di essere scrittori o artisti famosi o riconosciuti, quando un medio calciatore di serie A gode, sulla legge del numero, di molte molte molte miglia di vantaggio. E allora, scontenti, coltivano con acribia un mondo piccolo, il loro mondo piccolo, in cui replicano leggi di potere e di superficiale consenso che appartengono al grande mondo di cui dovrebbero essere se non alternativa, messa in discussione Si badi a quanto successo con la mancata dimissione del Direttore del Salone del libro di Torino, autore di orrende parole pubbliche riferite a una scrittrice, e “protetto” da una schiera di scrittrici potenti, le stesse che se quella frase l’avesse pronunciata un ministro o un politico qualsiasi, avrebbero inondati i loro articoli e i loro posto di risentito grondante femminismo. Si chiama mafia. Infatti, poiché quel direttore concorre a assicurare la loro posizione, al di là di ogni qualità letteraria, nel mondo di N.N. voilà niente femminismo e niente post. È solo un esempio di come la ipertrofia dell’io, chiave di volta del successo della società dei consumi si è trasferita mediante la società dello spettacolo sull’arte volendo colonizzarla. E poiché il potere della società dello spettacolo ha un grande nemico, ovvero la propria pretesa di divorare tutto, sta dirigendosi verso la poesia, la più povera e libera delle arti. Ma basta che uno, o due o un manipolo per quanto ristretto di artisti poveri e liberi si rifiuti di diventare figli di N.N. e il grande Drago si arrabbia, sbanda, si contorce impotente, e assiste con una pupilla arrossata al dolce fischiettare e al segreto tormentarsi di artisti che se fottono dei numeri, dei soldi e del narcisismo. E che vanno creando cose meravigliose.