Prisma è il nuovo libro di Maria Borio edito da Zacinto ed. a inizio del 2022. Il poema si apre con tre epigrafi, tre frammenti: da un trattato di E. F. F. Chladni sull’acustica, da E. M. Grant Duffe, «a proposito degli esperimenti acustici con l’eidofono di M. Watts Hughes» tradotte dall’autrice mentre la traduzione dell’ultimo frammento, tratto da J.-P. Courtois, è di F. Deotto e si chiude con due explicit da Lispector e Sereni. È evidente che la ricerca immaginativa e simbolica di Borio si possa accostare al rapporto, appunto, tra suono e figure geometriche di suono. La ricerca poetica di Borio è rivolta a un nuovo tipo di suono, e di figura di suono, agli acronimi in voga nel mondo giovanile, al linguaggio dei messaggi veloci. Il suono è anche immagine, il suono della parola è anche evocazione di un mondo altro. Ogni ritualità vede nella ripetizione di un suono lo spostamento energetico delle qualità umane. L’umanità per secoli ha ripetuto suoni e gesti per generare forme altre di conoscenza. La scrittura, per Borio, sembra essere un lungo viaggio di traduzione: il linguaggio che diventa forma. In quella forma di stabilizza in qualche modo l’effetto sonoro del linguaggio. Ma se la frase diventa un acronimo? LOL «vuol dire sempre luce che rompe le cose?». La scrittura di Borio tende alla prosa e orienta lo studio poetico tra l’iperpresente e il proverbio, guarda il mondo, le generazioni, i contrasti a volte impossibili a dialettizzare. Lo sguardo di Borio traduce in poesia la prosa del mondo. E nel nuovo linguaggio dalla veloce dissolvenza, dove i discorsi sempre con più difficoltà rendono le giuste dimensioni profonde, anche il silenzio produce figure di suono, ma il silenzio non è più solo pausa tra un suono e un altro, sembra, anzi, proprio un vuoto del dire. Il luogo del corpo, della persona che fa risuonare la propria parola, è un posto rigido, legnoso, e il legno «non è un buon conduttore / ma una persona sì, Chladni, porta le tue figure…»
«Sto per parlare:» si apre così Prisma, con lo sguardo di chi legge che si colloca nell’azione immateriale del parlare, del suono. Il linguaggio giovanile a un certo punto ha introdotto sigle e acronimi che velocizzano idee e azioni. Nell’ipervelocismo dell’epoca, però, il suono artificiale, LOL è corrispondente dell’antica risata? Che forma hanno questi suoni che rinviano alle stesse sensazioni che in altri tempi si fissavano in proverbi?
I suoni del gergo dei Millennials e della Generazione Z mi sembrano simili a quelli di una fonica sintetica. Sono come impulsi hi-fi e trasmettono un contenuto in maniera immediata ed empatica. Sembrano quasi dei ‘versi’, per usare una parola che, prima di appartenere al linguaggio della poesia, appartiene a quello biologico. Come i versi degli animali – che la mente capta in poche frazioni di secondi – i suoni di questo gergo vanno dritti alle corde essenziali della comunicazione. Dal momento che molte parole sono anglismi e acronimi (LOL, BUFU, ACAB), i suoni producono un effetto straniante rispetto all’italiano, come in un cortocircuito. Nella musica elettronica spesso si sentono fenditure di attrito tra le parti tonali, in una specie di fusione elettrica. Come nella musica elettronica, i suoni del gergo dei ventenni abbagliano lo spazio della lettura e dell’ascolto. Penso anche al trap. Nei testi di questo genere musicale il rapporto tra melodia e parole è molto teso. La melodia segue il testo in un andamento ricorsivo e enfatizza l’incidenza sonora delle parole. L’incidenza genera un pattern, in cui il significato delle parole si sfibra a favore di una ‘forma sonora’. Molti termini sono troncati e perdono l’ultima sillaba. Le parole italiane, senza l’ultima sillaba, sono disposte in combinazioni di rima baciata con miliardi di altre parole, anche di altre lingue. Si generano immagini foniche compatte, ripetitive, e chi ascolta le percepisce in modo istintivo, come i versi degli animali in una foresta. Il gergo dei ventenni, con la sua immediatezza, la sua velocità e il suo plurilinguismo, sembra costruire una lingua meno speculativa di quella delle generazioni precedenti, ma più sensibile, immediata, corporale, ritmica. Non è facile per la poesia rappresentare questo stato espressivo e al tempo stesso cercare di riflettere su di esso come processo storico.
«Che cosa perfora la luce?» La luce è pure suono, secondo gli scienziati, ma a frequenze differenti. La luce sposta e determina il calcolo quantistico delle particelle e allo stesso modo, mi viene in mente, lo sguardo di chi legge scompone la parola poetica e la rende soggettiva a meno che la parola non venga suonata o detta\letta da chi l’ha scritta. La tua scrittura si genera da luci o da suoni?
La scrittura per me nasce con le immagini. All’inizio c’è sempre un fotogramma, l’aderenza a un paesaggio o a un frammento visivo, a un movimento o a un gesto. Poi, l’immagine va dall’esterno all’interno, dal mondo alla mia interiorità. Quando mi metto ‘in ascolto’ delle immagini divento come un prisma che rifrange la luce. Da qui il titolo della plaquette Prisma. La luce passa nel prisma, le immagini mi attraversano. Questa situazione è un fenomeno che non si verifica sempre, non c’è permeabilità per tutte le immagini, non tutte riescono ad entrare in un significato. Ma quando il fenomeno si innesca, la parte visiva alimentata dalla luce e la parte linguistica alimentata dai suoni si compenetrano. La poesia allora ‘accade’, come una forma plastica di onde luminose – le immagini – e sonore – le parole che amplificano i dati materiali del visivo. Chladni era un fisico del Settecento, tra i primi a studiare gli effetti grafici delle onde sonore, le forme prodotte dai suoni. I suoi esperimenti possono essere una similitudine per parlare di ciò che si verifica in poesia. Il testo è un risultato di componenti foniche e significati. Leggendo o ascoltando attentamente un testo, si può riconoscere un organismo che ha filtrato il flusso della lingua in forme, come un prisma filtra la luce.
«I calcoli erano desideri?» se per essere giusti i calcoli devono tornare esatti, la logica del desiderio, per essere funzionale a sé stessa, non deve mai realizzarsi, per così dire, e tornare, sì, ma sempre nella propria insoddisfazione. Nella mancanza. Nella tua scrittura, quanto c’è di desiderato, e quanto di calcolato? Quanta pura ispirazione e quanta costruzione tecnica?
“I calcoli erano desideri?”: questa domanda è per me una formula che, non senza sarcasmo, vuole mettere la pulce nell’orecchio a chi legge. Può accadere che un desiderio molto istintivo, per essere soddisfatto, dia come esito un piano ben calcolato, ma anche che una cosa pianificata venga messa sottosopra a causa della forza irrazionale di un desiderio. Qualcosa di estremamente razionale sfuma nell’irrazionale e qualcosa di selvaggiamente irrazionale può risolversi in una composta razionalità. C’è sempre una variabile, che sfugge tanto al controllo più ferreo quanto all’oblio. Le cose autentiche hanno a che fare con questa variabile, perché dicono qualcosa di vero. La verità, per poter essere sentita, creduta e soprattutto vissuta, non è mai “di parte”, ma apre a una relazione. La poesia, per me, viene dalla dimensione di questa variabile, in cui l’ispirazione non basta e così la tecnica da sola non è sufficiente. Se, nel momento in cui si sente che un testo è compiuto, si riesce a trovare un’armonia tra l’ispirazione e la tecnica, tra l’istinto e la ragione, allora si dovrebbe provare l’esperienza – fosse anche solo letteraria – di qualcosa di autentico.
«Fibre ottiche sotto la strada \ trasportano nell’universo gli hater.» L’universo sta tutto nella rete. L’odio non è un sacrilego scempio all’oltremondano ma alla propria terrena mancanza che diventa odio per l’altro, per la pienezza immaginaria dell’Altro. Che cambiamento ha avuto la tua scrittura nel confronto con il digitale e, in generale, come dal digitale può generarsi poesia che sia, paradossalmente, una nuova lirica algoritmica, stretta nel linguaggio nuovo della Rete?
La poesia ha a che fare con quanto di autentico ci appartiene. Il digitale e gli algoritmi costruiscono un mondo di rapporti matematici. La matematica è sincerità. Mi fido dei numeri, mi danno sicurezza, sono come un patto di sangue con qualcuno che non mi tradirà. Ma il patto con il mondo dei numeri vale solo in una dimensione virtuale? Di fronte a qualsiasi fenomeno della natura – la pioggia, lo sbocciare di un fiore, l’amicizia o l’odio tra due persone – ogni legge naturale potrà avere un tassello che non torna. La legge di gravità non è identica in ogni parte del pianeta, ma la variazione viene spiegata con una formula. I lobi di una foglia così come le mani possono avere asimmetrie imprevedibili. Le foglie e le mani sono vere. Anche la legge di gravità lo è, a meno che non venga scoperta un’altra dimensione che ci faccia ripensare i principi di spazio e di tempo. Ma nell’interiorità delle persone e nei loro rapporti, la verità dei numeri e delle cose non basta. Una cosa vera – un oggetto o una formula – è, in fondo, povera se non abbiamo con essa una relazione autentica. Le cose vere diventano assolutamente importanti se per noi sono autentiche, se danno un senso alla nostra vita. Attraverso il digitale e gli algoritmi possiamo entrare nei meccanismi della mente umana e dell’universo, possiamo scoprire verità in più: come funziona il cervello, come è composta una galassia,… Ma in un mondo fatto di numeri o in quella che viene chiamata ‘realtà aumentata’ dove si trova il senso? Un senso può esserci, secondo me, se i numeri vengono considerati come una parte delle questioni che riguardano il problema e il bisogno di che cosa è autentico e di quanto è importante per noi essere autentici. Il linguaggio degli algoritmi, anche se è così sincero, dà risposte limitate in questo percorso; può darne di più quello della creatività.
«Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso?» Nel poema molte figure di suono, molti accostamenti esplosivi, mostrano la criticità, forse tipica di tutte le epoche, in cui la paura di essere sé stessi e ‘censurarsi’ – e magari essendolo, come «Nel fiume i gattini hanno strappato il sacco» ci si è strappati la falsa maschera sociale di dosso – lotta con il desiderio di essere sé stessi e esprimersi senza leggi e veli. Come vedi queste due tendenze, ovverosia conformismo vs anticonformismo, autocensura vs totale liberazione del privato, declinate nella poesia?
Una poesia non esisterebbe se alcune parti della biografia, dei sensi e del pensiero di chi scrive non fossero messe a nudo. C’è sempre un’esposizione quando scriviamo, che è, in fondo, anche una implicita dichiarazione di onestà, qualsiasi forma gli diamo sulla pagina. Anche l’ironia e il sarcasmo, declinati in una autocensura istrionica, esprimono una sottile capacità di mettersi a nudo. In questa dinamica, però, ciò che conta non è tanto autocensurarsi o liberare totalmente il privato. Sono la prima a ritenere che non debba esserci una gerarchia tra l’alto e il basso, tra i contenuti e i linguaggi considerati giusti o sbagliati, censurati o disinibiti. La poesia non può vivere di queste distinzioni, dei costumi di una società vecchia. Ciò che conta, per me, è questo: parlare del nostro momento più intimo così come assumere un atteggiamento impostato dovrebbero creare un immaginario letterario, una forma di conoscenza attraverso la dimensione della letteratura. Se questa dimensione si perde, l’autocensura o la confessione diventano un esercizio o uno sfogo psicologico, valgono per chi è, senz’altro, il loro protagonista o artefice, ma letterariamente non il loro autore.
Il poema alterna sette componimenti scritti a sette immagini che riproducono le prime sette tavole illustrative al trattato del fisico Chladni che mostrano come gli effetti delle vibrazioni sonore su una lastra cosparsa «di sabbia o polvere di licopodio […] corrispondevano a disegni geometrici. Alle figure di Chladni fa riferimento la cimatica di Hans Jenny.» Tutto il poema «immagina le figure di suono in poesia attraverso gli effetti sonori del linguaggio». Come mai sei partita da un trattato di acustica per Prisma e cosa è la cimatica?
La cimatica studia gli effetti delle onde acustiche e, nonostante la validità scientifica dei suoi esperimenti sia stata contestata, per me essa offre similitudini suggestive per parlare di un testo di poesia. La cimatica trae ispirazione dagli esperimenti di Chladni. Questo fisico del XVIII secolo metteva granelli di sabbia o spore di licopodio sopra a delle lastre, che sottoponeva a vibrazioni sonore di diversa intensità, e in base alle frequenze i granelli e le spore andavano a disegnare dei pattern. Chladni credeva che potessero ricavarsi leggi matematiche da questi pattern, le tavole del suo trattato del 1789 cercano di indicarlo. La cimatica approfondisce i suoi esperimenti. Non esiste la certezza che vibrazioni di una certa intensità producano sempre, ripetutamente, costantemente, figure corrispondenti. Ma, traslando l’immagine alla poesia, non mi è sembrato improbabile immaginare il campo di un testo come quello di una lastra, la sabbia o il licopodio come la materia del linguaggio e le vibrazioni acustiche come il flusso del discorso poetico che dà forma al linguaggio nel corpo del testo. E poi la luce, quando attraversa un prisma, produce gradazioni luminose di diverso tipo. Penso alla luce come alla materia del linguaggio e del suono, e al prisma come alla forma del testo che, attraversata dalla luce, crea una distinzione dello spettro e una composizione. Il prisma è un modo per dire ‘poesia’ – unire le parole alle immagini, il visibile al sonoro.