<<Ma quindi Lei che cosa mi vorrebbe raccontare?>> mi chiese il giovane professore.
Per un istante misi da parte l’ultima ora in cui avevamo parlato di letteratura, delle mie pubblicazioni e di cultura in generale.
<<Vorrei raccontare molto, quello che ho visto, quel che ho sentito ma non so come iniziare>>.
<<È così difficile?>>
<<Caro professore, riprendere in mano tutti questi anni non è cosa da poco>>.
<<Ma qual è la prima cosa che vorrebbe dirmi?>>.
Questa domanda è un macigno che mi obbliga a fare i conti con troppe cose che mi frullano per la testa.
Non credo nei frullati, credo nelle sintesi, nei riassunti perché quando si scrive bisogna prendere il mare e trasformarlo in un mattone o comunque in qualcosa che possa stare in una mano e dopo, solo dopo, quel mattone lo riporti su carta.
Si scrive e non si scrive per gli altri, si scrive e non si scrive per sé, a volte si scrive per i posteri quando abbiamo la fortuna che siano come noi abbiamo sempre pensato che avrebbero dovuto essere i contemporanei.
E forse i contemporanei sono posteri che non hanno ancora visto succedere quel che lo scrittore ha raccontato.
Forse lo scrittore deve attendere anni, deve aspettare che qualcuno, in un moto di bontà, possa cogliere quello che ha detto e trovarci un senso e dire: <<Guarda questo! Che intuizione! Epperò! Che sintesi! Che concetti! Innovativo! Surreale! Apre nuovi orizzonti all’Arte!>>.
Non succede quasi mai e quando succede è così raro che è difficile arrivarci vivi.
Già, perché può capitare che a scoprirti siano i posteri. E io ho avuto la fortuna di incontrarli in vita.
Quando ero giovane campare non era un problema, di lettere si poteva vivere, ci sono sempre stati mille modi di ottenerne denaro.
All’Università conoscevo un ragazzo che si manteneva scrivendo testi per fumetti e fotoromanzi pornografici, non so quanto guadagnasse ma mi assicurava che lo pagavano bene.
Poi c’era sempre il copyrighting che era ben pagato quando imparavi a scrivere i testi dei siti online per vendere al meglio i prodotti.
Esisteva un mercato per le lettere in cui ad ogni battuta si dava un prezzo e poi c’era anche il prezzo per essere ignorati.
Un prezzo che subito si pagava con gioia ma che nel tempo logorava, il costo di cercare e di toccare l’Infinito, di farlo vedere possibile, vicino, immediato.
L’Infinito sotto casa, in latteria, sulla panchina dei giardini, in altalena, al lavoro, sul bus, nello sguardo di chi soffriva, nell’allegria di una bruttina felice e stanca che portava a casa qualcosa che qualcuno aspettava.
Quell’infinito che ci riassumeva e ci metteva in fila rendendoci cose bellissime. La dignità della gioia di tutte le persone che abbiamo incontrato per sempre in tram o sul treno. E di quelle che non abbiamo mai visto.
La felicità di tutti quelli che avevano camminato in ogni tempo in tutte le strade del mondo, quelle che c’erano, che ci sono e che ci saranno.
Il loro desiderio di essere, di vivere, di riscattarsi e un Dio che ancora esaudirebbe i desideri di tutti quelli che li desiderassero abbastanza.
E i sogni, otto miliardi di sogni, otto miliardi di universi, di valori e di terreni dove è attecchita una qualsiasi educazione.
Tutti insieme con la stessa umanità, voglia di ridere, di piangere e di sperare, pronti a vedere nascere una civiltà della Vita.
Mentre mi guarda in silenzio la domanda incombe minacciosa: <<Cosa mi vorrebbe raccontare?>>.
<<Professore, vorrei dire quanto mi sentivo in difficoltà con tutto quello che vedevo, con i messaggi che circolavano quando ero giovane>>.
<<Si spieghi meglio>>.
<<Il nostro era un mondo profondamente moralista. Ma gli impulsi morali erano irregolari, venivano somministrati al bisogno come se fossero stati gocce di medicina. Forse non sono chiaro ma avevo l’impressione che non ci fosse stato un vero sistema morale a cui aderire>>.
<<Cosa intende per sistema morale?>>.
<<Professore, intendo dei principi che potessero essere assimilati per far fronte alle situazioni nuove che si verificavano>>.
<<E quindi?>>
<<Quando il principio viene assimilato dall’individuo egli dovrebbe essere in grado di ragionare da solo per risolvere ogni problema nuovo che si verificasse magari confrontandosi con la sua comunità>>.
<<Dov’era il problema secondo Lei?>> mi chiede.
<<Il problema era che il nostro sistema non aveva un sistema valoriale di ragionamento che consentisse di proporre soluzioni dal basso. Anzi le persone erano alienate, super informate ma incapaci di svolgere ragionamenti propri. Tutto era calato dall’alto, volta per volta, secondo i bisogni>>.
E lui: <<Vede, bisogna rassegnarsi al fatto che le strutture umane sono piramidali e che i pochi governino sempre sui tanti>>.
<<Professore, sono d’accordo ma la struttura della società si stava sfaldando, non c’era una direzione chiara. Stavamo correndo verso l’estinzione con lo stesso spirito con il quale ci si faceva convincere controvoglia dagli amici ad andare a vedere un film che non ci piaceva>>.
<<La capisco, le strutture sono piramidali ed ingiuste e spesso governate da persone incapaci ma avere l’intelligenza di comprenderne i difetti non dà il diritto di giudicarle apertamente>>.
<<Cosa intende professore?>>
<<Più la sua intelligenza sarà esposta più diffideranno di lei in quanto incontrollabile. Di conseguenza più attacchi un sistema apertamente meno hai possibilità di riuscire a cambiarlo>>.
<<Professore, in quei giorni non c’era più tempo per costruirsi un curriculum da idioti >>.
<<Cosa c’era di così urgente?>> ribatte.
<<Ha mai letto dei rapporti tra gli uomini? Bianchi, neri, di destra, di sinistra, tutto serviva ad evocare odio>>.
<<Dividi et impera>> mi dice.
<<Tutto senza una ragione, un’idea di miglioramento, di bene comune, solo odio e fiamme. Hai idea di quanto odio potevano evocare le parole fascismo e comunismo?>>.
<<Ideologie abbastanza dannose non crede?>>.
<<Esatto Professore e in entrambe l’odio aveva avuto una parte fondamentale>>.
<<Cosa vorrebbe dire?>>
<<Che il nostro modo di pensare confuso, invece che unire, stava trasformando l’altro nel nostro nemico. E pian piano, più o meno disordinatamente, ci trovammo senza motivo ad odiare l’altro fosse stato esso bianco, nero, rosso, giallo, maschio o femmina, eterosessuale o omosessuale o altro ancora>>.
<<Non crede di essere un po’ catastrofico?>>.
<<Non lo credo perché quel costrutto non era una vera civiltà>>.
<<Cosa intende?>>
<<Che l’ossessione del controllo di tutto aveva portato a un’introversione del sistema che collassava su di sé come un tendone da circo senza sostegni. Pompavamo bolle per ritardare l’inevitabile ma non c’era nessuna via di uscita, nessun progetto alternativo>>.
<<Come vi siete salvati?>>
<<Professore, è mai stato a Roma>>
<<Certo, perché me lo chiede?>>
<<Cos’ha Roma in comune con l’Egitto e con il Perù?>>
<<Non lo so, cos’è questo? Un enigma?>>
<<Il Colosseo e le piramidi egizie e peruviane sono i simboli delle più importanti civiltà scomparse di quei luoghi. Noi ci affannavamo ad ottimizzare processi di obsolescenza programmata buttando via regolarmente i nostri prodotti. Invece, quei popoli avevano cercato di costruire qualcosa che durasse in eterno o quasi>>.
<<Avete iniziato a costruire le piramidi anche voi?>>
<<Professore, dovevamo iniziare ad essere sostenibili per il pianeta ed era impossibile esserlo se progettavamo le cose per buttarle via dopo due anni>>.
<<Avete modificato il mercato?>>
<<Assolutamente no, abbiamo fatto entrare nel mercato prodotti a lunga durata che avrebbero avuto acquirenti>>.
Mi guarda pensoso e allora io continuo: <<Ad esempio iniziammo a vendere dei frigoriferi che potevano durare cento o duecento anni. Sapevamo che non era impossibile visto che nel 2022 i frigo degli anni ‘60 funzionavano ancora bene mentre quelli del 2000 erano rotti da dieci anni>>.
<<E poi?>> mi chiede.
<<Poi iniziammo ad applicare questo principio a tutto, anche all’edilizia e costruimmo edifici stampati in quarzo in grado di resistere per migliaia di anni senza manutenzione. Pensi che i grattacieli che avevamo, senza manutenzione, sarebbero crollati tutti in cinquant’anni >>.
Mi guarda confuso e mi chiede: <<Ma perché vi preoccupavate di queste cose?>>
<<Professore, eravamo così preoccupati perché il nostro mondo era così fragile che sarebbe bastato rimanere senza elettricità per venti giorni e ci saremmo trovati quasi all’età della pietra>>.
<<E come ne siete usciti?>> mi chiede.
<<Credevamo servisse un nuovo modello economico e sociale per costruire qualcosa in grado di restare. E decidemmo di dedicare energie per scoprire cose nuove invece che per rifare quelle che già si avevano. Serviva un modello basato sulla felicità, sull’amore, sulla vita invece che uno fondato sulla morte e sull’odio >>.
<<Ma non avevate paura di adagiarvi ancora di più?>> chiede pensieroso, poi dopo una pausa continua: <<Lei come pensava che sarebbe stato il futuro?>>.
Il futuro è una parola pericolosa, ancora oggi diffido di chi vende il futuro perché pretende in cambio il presente. E anche chi progetta il proprio futuro e rinuncia a un pezzo di oggi deve sempre mettere in conto qualche imprevisto. Anche perché spesso si sa troppo poco del passato.
Perciò, con ben duecento anni di esperienza mi piace raccontare ai giovani il mondo che c’era prima.
E gli rispondo l’unica cosa di cui sono sicuro: <<Volevo che il futuro fosse una casa per tutti>>.