L’arte di allacciarsi le scarpe unisce poesia e fumetto per un racconto in versi creato dalla scrittura di Alessandro Silva Ferrari e i disegni di Federico Galeotti che mostrano l’errare per le vie di una città immaginaria del protagonista che è un poeta i cui sogni premonitori sono presagio di quello che è stato la più grande sciagura della storia: il disastro di Fukushima. E la cronaca del trauma diventa flusso di parole&immagini che persevera nel porre i piani distanti del disegno e della parola sempre nella prossimità, calma e nervosa allo stesso tempo, di un’emersione del senso sempre possibile anche dal trauma della morte collettiva. Un cortometraggio del passaggio e del passare, bianco nero, vuoto pieno, erranza del paesaggio urbano e naturale, a sua insaputa, che la cultura scientifica può estinguere quando alla sapienza non si accompagna il sentire della saggezza. Un individuo non può fare poesia che disindividuandosi. Il ritmo di queste poesie, dei disegni, collega i mondi interiori al materiale esterno. Il camminare è sempre un pensiero che si fa sentire nella forma del verso. In esergo un estratto dal poeta Sanguineti. La poesia di Ferrari si nutre di molecole informative che alla fine del testo si fanno illustrazione oggettiva del trauma interiore, come se il poeta volesse, nella realtà fuggente del mondo che crolla, sincerarsi della realtà, assicurarsi del dato di fatto. È poesia ogni atto che sa dare informazione nuova, riaprire l’ascolto alle conseguenze di un disastro, far vedere senza rimandare ad altro. I sogni conducono al reale, diretti alla descrizione molecolare del ritmo esistente sempre nel punto di esplodere e collegare versioni diverse della scrittura: scrittura del desiderio che intreccia un corpo, le sue scarpe, e allaccia immagine e parola, mantenendo, questa è arte, le singole peculiarità, il destino di entrambe.
«Un Pino prende vita dalla pioggia.
Due corpi alla finestra si staccano
le ombre: non c’è mitezza in loro ma
l’affanno di cavalli magri dopo
l’amplesso. Crolla l’abisso dal cielo.»
Il protagonista di questa visione erra, straniato e straniante, per le strade e visita il mondo che sta per crollare sommerso dalla vendetta, per così dire, della natura. Come hai è scelto il punto di vista da cui scrivere, il protagonista è una finestra, una ferita dalla quale chi scrive può rivelare o nascondere sé stesso?
Il protagonista è sì una finestra e, a quella finestra, chi scrive può decidere se affacciarsi, celare parte della figura dietro il tessuto raggruppato delle tende o mettersi in una posizione dalla quale si riesce a vedere l’esterno senza che qualcuno o qualcosa veda te. Ho scelto la terza via. Attraverso il protagonista mi (e lo) rendo testimone e osservatore in disparte di un cambiamento in atto, in un teatro quotidiano di eventi in cui i conflitti interiori richiamano le trasformazioni esterne e i segnali premonitori mandati dall’ambiente, in un continuo interscambio.
Il disastro feroce scatenato – si può supporre – dalla vendetta di una natura sfruttata e depauperata è, insieme, culmine ed epilogo, l’atto finale di una trasformazione multipla: del mondo, del protagonista e di chi scrive.
I nuclei mi evocano anche il nocciolo di un discorso poetico che concerne la scienza, la razionalità, ma pure quel mondo interiore, visionario, più che visivo, del protagonista che sente la distanza dell’umanità dalla natura. Il nucleo del senso sembra essere proprio l’insensatezza dell’opera umana quando cerca di sopraffare il mondo: in che modo le immagini e le parole si rapportano al nucleo di un sentire, cosa le accomuna e cosa le differenzia?
L’evocare e il mostrare sono due dei possibili risultati del compito assolto dalla poesia, che è scritto nell’etimologia del suo stesso nome: cioè fare, produrre, e, aggiungo io, dare una forma percepibile a quanto si è creato. Forma che può assumere vita propria (come un disegno) e disgiunta – ma mai separata – dal nucleo originario e sempre riconducibile ad esso per la presenza di un legame: a mio avviso, parola e immagini sono dunque come la prima biforcazione dei rami sull’innesto di un unico tronco.
Per quel che mi riguarda, e di cui sento l’esigenza in questa fase creativa, è l’assoluto mantenimento per la poesia di un legame forte con natura, società e dimensione interiore per riuscire a raccontarli usando anche più forme espressive, attraverso una continua ricerca di significanti che, purtroppo, non ha quasi mai esito positivo. Ci si avvicina, lo si sfiora, per accorgersi quanto l’oggetto e l’essenza del raccontare siano già distanti o evoluti in altro. E si ricomincia: se non saranno parole e immagini, potranno essere parole e musica, o scultura, pittura, recitazione e tutto quanto la creatività umana consenta.
«Nell’occhio di pozza resta poltiglia e
un cenno di acqua sudicia, e schiuma.
Qualcuno passa. Sono nuove
le scarpe, e la suola esplora
nel profondo ogni midolla
dell’orfana risacca di relitti.
Il bimbo strilla e gattona, cresce sazio
(la madre dona latte al drago sacro).
Gli specchi di acqua inquieta
ai soli di marzo si danno morte.
Lasciano foglie di ali rosicchiate:
a volte un’unica orma rimane
nel cesto di porfido e terra a stracci.
(ed è febbre dentro ossa senza peso)»
è un estratto da “Due denari per il viaggio – Cadono le strade”. Relitti mi fa pensare all’esplosione culturale e ambientale che stiamo vivendo ultimamente, ma anche al fatto che di molta tradizione artistica e letteraria ci arrivino relitti di manipolazioni, imitazioni e reinterpretazioni a volte molto epigonali spesso prive del desiderio e del senso originario del poeta o della poeta che li hanno proposti per la prima volta. In esergo al tuo libro c’è la presenza del poeta Sanguineti: che rapporto hai con la sua poesia?
Sanguineti è un apice, poiché coniuga due squisite capacità: egli non è solo un eletto creatore e cantore di un enorme banchetto umano organizzato dal tempo, del quale mostra lo spirito impigliato in angoli e pieghe di fallimenti e vergogna, giudizio o felici momenti.
Sanguineti è anche un ‘meccanico’ della poesia, un riparatore dei meccanismi fallati di mondi già esistenti. Aggiusta e mostra senza esche o trame in cosa è consistito il suo lavoro. Fa emergere verità che il traffico quotidiano del vivere nasconde. Il suo linguaggio multiplo poi, che usa anche termini scientifici e tecnici, e che si sposta dall’intellettualismo dei primi esordi alla concretezza delle cose quotidiane, da sempre mi affascina e lo rende esempio da cui attingere.
Alla poesia precedente è abbinata quest’immagine: in che modo hai organizzato immagini e parole per mantenere il giusto equilibrio tra queste due forme?
Per questo aspetto è stato fondamentale la bravura e competenza di Federico Galeotti, l’illustratore. Federico ha letto e introiettato i testi poetici, scegliendo da ognuno una o più parole significative sulla base delle quali ha poi creato i disegni. In un continuo e laborioso confronto tra noi e con Antonio Lillo, l’editore, abbiamo disposto le immagini realizzando una cartografia completa della storia narrata nelle poesie, che avesse una sua anima e un suo proprio sviluppo visivo emozionale, sebbene mai svincolato da quanto scritto. Due livelli per due storie compenetranti che esplorano quanti più modi e mondi possibili, e danno al lettore l’occasione di scegliere o stare in attesa di udire qualcosa, che sia amarezza o speranza. O di creare la sua, di storia.
«14:46. Una scossa di terremoto di magnitudo 9.1, con epicentro nell’Oceano Pacifico a circa 120 chilometri al largo della regione di Tohuco, sull’isola Honshū, si propaga alle coste giapponesi. La scossa principale dura circa 6 minuti.»
La sesta parte apre con il resoconto obiettivo della tragedia di Fukushima e in questo modo la parola poetica esplode, il disegno si fa illustrazione di un dato di fatto. Come ti rapporti al senso di quello che scrivi dal punto di vista della forma? Può esservi un confine tra le forme diverse di espressione del desiderio creativo oppure è proprio la commistione dei generi che può dare forma al destino del proprio sentire poetico?
Propendo per la seconda scelta. Volevo e voglio sempre una buona poesia, riconoscendo di non esserne capace, e il nutrirmi di generi e forme differenti, l’attingere dai maestri di vere opere d’arti – quelle al di fuori di qualsiasi influenza delle mode e dell’epoca – mi è di aiuto e tormento assieme. Alla fine, ogni cosa nasce dall’evolversi di un conflitto, uno scontro, uno scoppio. Dopo, una voce inaspettata cresce dalle fosse e si leva alta; a volte se ne ha paura, la si scansa, altre si accetta quel destino e, in un alternarsi snervante di debolezza o rinnovato vigore, si scrive.
La poesia non salva ma è salvifica poiché può condurre ad una via di salvezza. Nel mio caso, tale via, cerco di crearla e proporla lasciandomi accompagnare dalla complicità di più forme d’arte: unirle (si spera) armoniosamente è, di fatto, aumentarne la potenza espressiva.
In certi casi parola e immagine si fondono, si distanziano: che rapporto hai con la pittura e con la musica? Queste due forme artistiche hanno in qualche modo influito sulla scrittura di questo libro?
Sono sempre stato incuriosito dalla commistione di arti diverse per veicolare un messaggio, o semplicemente lasciarsi stupire dal bello. Pittura e musica sono insiti nella poesia e il poeta che riesce a farli emergere attraverso e nei suoi versi, rendendoli bellezza disponibile a chiunque, ha compiuto un piccolo passo verso l’assolvimento del suo compito, se un compito ha o si prefigge. Eppure, tutto questo non è possibile senza l’intervento del lettore che deve cogliere i segni e interpretarli. Leggere poesia è tanto difficoltoso quanto crearla: poeti e lettori sono spesso orfani gli uni degli altri, e noto anche come i lettori siano vittime di una forma di presunta incomprensione o ignavia verso la bellezza lirica. Non mancano solo i lettori ma anche i poeti che abbiano le parole, e un ponte enorme che avanza nella nebbia per unirli. Poesia e musica hanno dunque influito sulla scrittura di questo libro sperando che, quanto visto e ascoltato da me, potesse giungere al lettore in una qualsivoglia forma.
Mi sono lasciato suggestionare dalle stampe giapponesi del XIX secolo e da melodie contemporanee di musicisti asiatici in una complicità di buone menzogne e qualche brutta verità per creare il multiforme mondo poetico di ‘L’arte di allacciarsi le scarpe’. E spero sempre ogni lettore possa trovare la sua chiave per accedervi.
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Alessandro Silva Ferrari – Federico Galeotti,
L’arte di allacciarsi le scarpe, Associazione Pietre Vive, collana lePietroline diretta da Antonio Lillo, 2022