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Estasi. Intervista a Federico Ferrari

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Estasi è un lavoro nato dalla collaborazione, umana e professionale, tra il filosofo Jean-Luc Nancy, recentemente scomparso (1940-2021) e Federico Ferrari, che insegna filosofia dell’arte all’Accademia di Brera. Il titolo potrebbe fuorviare il lettore, perché, in questo saggio, per ‘estasi’ s’intende qualcosa di corporeo, di carnale. L’estasi pone l’artista fuori di sé, e lo conduce nella materia, nel corpo e nel taglio del corpo-mondo. La creazione artistica, in sostanza, è tale se l’artista avverte e percepisce, facendoci percepire e avvertire, la propria carnalità: «Senza questa estasi non si dà opera, ma solo astrazione e costruzione intellettuale di un senso infondato e limitato». L’artista che abbandona l’Io a favore di una totale immersione nella carne del mondo, apre l’opera a infinite metamorfosi e permette di cogliere lo spazio rizomatico del desiderio. Come nella pittura di Samorì, l’immagine di copertina è un’opera di Nicola Samorì del 2012 e s’intitola Ogni estasi è indecente, Estasi riprende l’essenza vivente dell’opera pittorica nel suo farsi atto, azione. Estasi è agire. Uscire verso l’altro carnale da sé. Il saggio è suddiviso in due sezioni: Estasi e Iconografia dell’autore. Se la prima parte è il vedere dell’atto, l’azione dello sguardo, la seconda sezione organizza le metamorfosi dei rapporti tra autore, scrittura e immagine fotografica dello scrittore o della scrittrice: Balzac, Woolf, Proust, Borges, Bachmann, sono alcuni dei 14 ritratti. Estasi è un saggio scandaloso che mette in dubbio, in un’epoca egoica e liscia e narcisistica come la nostra, quel che comunemente intendiamo per visione e scrittura. Estasi ci aiuta a farla finita con il giudizio dell’Io, ci apre alla transizione con l’altro, sia esso opera, sia esso autore. Estasi è un saggio indecente.

Gianluca Garrapa

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«I testi che accompagnano i ritratti sono stati scritti di volta in volta da uno di noi. I paragrafi della prima sezione sono scritti dall’uno e dall’altro, ma il tutto è stato rivisto insieme. Non abbiamo voluto distinguere le nostre firme». È l’ultimo paragrafo del preambolo che precede Iconografia dell’autore: puoi spiegarci il perché e il motivo di questa scelta, e come nasce Estasi dal punto di vista pratico della sua scrittura?

Scrivere un libro a due è una sfida all’idea stessa di autore. Per lo più, i libri a due firme sono composti da due parti scritte rispettivamente da uno o dall’altro autore. Queste parti vengono poi firmate. Di fatto, si tratta di due libri su un unico soggetto rilegati sotto un’unica copertina. Questa ipotesi non è mai stata presa in considerazione da me e da Jean-Luc, non solo per questo libro ma anche per i tre che l’hanno preceduto. Tutto è sempre nato dalla volontà di lasciare che dell’impensato sorgesse dall’esposizione della scrittura all’altro, all’altro che ognuno di noi due era per l’altro e all’inappropriabile alterità, all’impensato, che la scrittura porta inevitabilmente con sé, dentro di sé, fuori di sé. In questo senso, la “nostra” scrittura è costituita da una serie di rimandi, di riprese, di ripensamenti e di chiose, in cui, alla fine, risulta molto complesso, non solo per il lettore ma anche per noi, capire chi abbia scritto cosa. Se vuoi, si tratta esattamente di una scrittura estatica, che esce dal solco certo dell’autore, del soggetto scrivente per aprirsi, in modo davvero radicale, alla sua alterità.

Chiaramente la scomparsa di Jean-Luc, due mesi dopo la chiusura del libro, lascia a quelle parole un che di ancor più straniante per me. Si tratta, in fondo, non solo dell’esperienza dolorosissima della morte di un amico, ma, in qualche modo, della propria morte, della morte di una parte della propria identità, della propria soggettività.

Scrivere, come ebbe a dire Blanchot, è un modo per vivere l’impossibile l’istante della propria morte; scrivere a due, quando uno dei due muore, è anche il modo di vedersi già morti, di sapersi vivi e morti allo stesso tempo. O, detto altrimenti, di sopravviversi, ma in una condizione di amputazione, di perdita senza ricomposizione possibile, senza resurrezione, senza redenzione.

«L’autore non genera l’opera, ma è piuttosto il contrario: l’opera genera il suo autore». Sempre in Iconografia dell’autore si analizza il rapporto tra autore e opera arrivando alle relative conclusioni. Che rapporto esiste, a questo punto, tra il soggetto di un’opera pittorica, tra il personaggio di un’opera scritta, e il suo creatore? E cosa lega il ritratto visivo dell’autore alla sua opera scritta?

Credo che la risposta sia precisamente nella citazione che apre la tua domanda: è l’opera che genera il suo autore, non viceversa. Posso aggiungere che questo accade soprattutto quando si è di fronte a un grande scrittore o a un grande artista. Per i minori, vale esattamente la formula contraria: nei loro lavori non c’è che la soggettività dell’autore, il suo piccolo mondo, il suo narcisismo. In realtà, in loro non c’è opera, perché l’opera è esattamente ciò che travalica l’esistenza dell’autore.

All’interno di questo processo di ridimensionamento del Soggetto scrivente e pensante, però, l’iconografia dell’autore ci ricorda come ogni opera, non sia un’astrazione frutto di chissà quali misteriosi giochi dello spirito o di una mente disincarnata, ma nasca da un corpo, da una miseria e una grazia singolare che si è incarnata in un corpo, in un determinato lasso di tempo. La traccia di quel corpo si riverbera nella scrittura che, a sua volta, fa assumere a quell’immagine un altro significato, estraniandolo dal suo contesto. Scrivere è sempre anche un modo di tracciare un ritratto di se stessi, di rintracciarsi, di riconoscersi. Ogni forma d’arte è sempre anche autobiografia, una scrittura che la vita, una vita, fa di sé stessa: auto-bio-grafia.

«Materialismo estatico significa rendere alla materia il suo lato miracoloso: il miracolo che qualcosa esista. Significa, detto altrimenti, liberare la materia dall’astrazione che la riduce a semplice materiale manipolabile». Comunemente materialismo e estasi sembrano due concetti che confliggono tra loro, eppure proprio questo conflitto genera la metamorfosi, il senso dell’arte e il divenire. Ci spieghi cosa intendi e se ci sono delle opere d’arte, attualmente, che incarnano la pratica del materialismo estatico?

L’idea di un “materialismo estatico” mi è apparsa per la prima volta verso il 2010. Mi ero interessato, allora, di alcune fotografie molto materiche (Nathalie Blanchard) e dell’opera di un artista portoghese (Francisco Tropa) nelle quali percepivo come proprio da un’esperienza profonda della materia potesse scaturire una fuoriuscita dai confini dell’aridità materialistica, dalla riduzione del mondo a semplice materia manipolabile priva di ulteriorità. Mi parve in quegli anni che, al contrario, una diversa visione e comprensione della materia potesse essere al cuore stesso di un pensiero abissale, un pensiero che apriva la materia a qualcosa che la eccedeva. In fondo, non lo nego, c’era in me una forma di rapimento estatico e visionario che sentivo erompere in modo impellente. Iniziava a delinearsi qualcosa come una sorta di misticismo camuffato che, in modo ancora molto oscuro, percepivo in alcune forme espressive della contemporaneità, più o meno, prossima.

Iniziai a rintracciare queste forme di estasi della materia in molti autori. Alcuni mi accompagnavano da molti anni, come Georges Bataille o Clarice Lispector, mentre altri venivo scoprendoli o riscoprendoli, come William Blake o Peter Handke. Altri ancora, mi aiutavano a pensare la medesima questione, talvolta in negativo, nel cono d’ombra della loro cristallina scrittura, come Cristina Campo e Andrea Emo oppure in forma agonica, come mi accade ancora quotidianamente nella lettura incrociata di Guido Ceronetti e Sergio Quinzio. Chiaramente, sullo sfondo si muoveva, da una parte, l’immensa tradizione mistica occidentale e non solo occidentale e, dall’altra, il grande pensiero filosofico da Plotino a Wittgenstein, da Spinoza a Deleuze.

Forse quello che dici ha a che fare con quest’altra frase: «l’arte è una finestra spalancata sulla metamorfosi infinita»? È un’espressione sublime. Non saprei aggiungere altro: l’arte, secondo il materialismo estatico, come dialoga con l’eccesso di Io di questa «epoca asfittica» e con la mancanza del corpo dell’autore?

Sì, è un altro modo per avvicinarsi a quel nucleo pulsante e incandescente che sta sotto l’espressione ossimorica di materialismo estatico. In questa direzione, ad esempio, esercitò su di me un’influenza, per certi versi, decisiva il lavoro dell’artista georgiana Sophie Ko, con le sue Geografie temporali, nelle quali le metamorfosi della materia generano l’opera in modi sempre inediti e senza una fine e un fine prevedibili. Le sue opere rendevano immediatamente visibile e sensibile questa estasi della materia che genera un’eccedenza di senso.

Oggi, anche alla luce di letture ulteriori e di altri artisti (tra i quali riveste un ruolo, per me, centrale Nicola Samorì), mi pare che questa spinta estatica al cuore della materia si debba spingere verso territori che il senso comune descriverebbe come al limite del delirio; territori nei quali si intravede la possibilità che l’estasi della materia sia, in fondo, il modo in cui la materia pensa se stessa. Una volta entrati in questo territorio ombroso non c’è più un soggetto che pensa la materia per vederla uscire da sé. C’è, piuttosto, la materia stessa che si pensa in noi. Anzi, dire “noi” è già troppo, perché noi siamo quella materia. Noi siamo un effetto, un riflesso del pensiero della materia. Per questo, lo spazio dell’Io si riduce o, quanto meno, perde di centralità a partire da questa prospettiva.

Solo recentemente, ho incontrato davvero, pur avendolo avuto presente per tanti anni, La mente estatica di Elvio Fachinelli ed è un testo illuminante per comprendere queste vie tortuose. Fachinelli aiuta ad afferrare proprio le dinamiche dell’Io all’interno del “sentimento oceanico” che la materialità dell’universo porta con sé.

«Il romanziere, come sostiene Bachtin, ha un’eccedenza di visione, eccede il campo del visibile». È l’incipit del ritratto dedicato a George Sand (Lo sguardo femminile): leggendo questo ritratto ho pensato alla moda attuale di scrivere, letteralmente, immagini a partire da programmi di intelligenza artificiale: come si pone la questione del materialismo estatico nel momento in cui un algoritmo, seguendo le istruzioni umane, crea un’opera d’arte? Cosa diventa un’opera d’arte se il corpo dell’autore collabora col corpo elettrico dell’AI privato della carne e dell’inconscio?

Mi verrebbe da risponderti che la maggior parte delle opere prodotte da AI mi paiono estremamente povere, brutte e, di conseguenza, senza interesse. Ma sarebbe una risposta stupida e incongruente con quanto ho detto prima. In fondo, anche l’AI è necessariamente un modo in cui la materia pensa se stessa. Il problema, qui, allora, non è che sia una macchina a pensare, come accade di sentire dire da attardati umanisti, ma semmai che nella macchina ci sia, per il momento, troppo umano, troppo antropocentrismo, un eccesso della soggettività sovrana del programmatore. L’umano è solo un momento di questo processo di autocomprensione dell’universo. Ci dobbiamo, in qualche modo, rassegnare e imparare a vederci come parti di un movimento molto più vasto e complesso del nostro piccolo io, della nostra brevissima esistenza. L’Es – che, d’altronde, per Freud era un campo di forze e di energia – non sta solo dentro alla nostra psiche, ma ovunque, nella trama della materia, e ovunque si esprime. Noi tendiamo a pensare che si esprima in una parola, ed è certamente vero che per l’umano è spesso così. Ma dobbiamo iniziare a comprendere, a contemplare la possibilità che si esprima anche nelle reazioni atomiche di una stella o in una macchina. Siamo noi che, probabilmente, non sappiamo ancora vederlo, leggerlo, percepirlo, comprenderlo.

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Jean-Luc Nancy, Federico Ferrari, Estasi, Luca Sossella ed. 2022

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