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Martino Ciano. Itinerario della mente verso Thomas Bernhard

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Bisognerebbe tirare un gran respiro e immergervisi, come in apnea, nella lettura di Itinerario della mente verso Thomas Bernhard (A&B Editrice), terzo romanzo di Martino Ciano. Con l’accortezza, peraltro, di prepararsi in anticipo psicologicamente ad affrontare un racconto duro, teso, spiazzante.

D’altronde lo scrittore calabrese mette le mani avanti, chiarendo già in apertura che nelle pagine che seguiranno ogni contraddizione è voluta. Ogni errore è voluto. Ogni descrizione è evanescente. Ogni malvagità è ricercata. Ogni parola è una bugia. Questo è il racconto di una mente confusa, quindi vera, eterna, libera di falsificare, di contraddirsi, di amarsi, di uccidersi, di non ricordare, di omettere, di colpevolizzarsi, di essere, di non essere. Tu, lettore, sei autore e spettatore quanto me.

Spettatore, appunto, di una pièce che si apre in un luogo claustrofobico e ricco di significato per lo sviluppo dell’azione, una stanza poco rischiarata da un camino: uno spazio che, verremo a scoprire presto, è anche stata camera ardente di entrambi i genitori come pure della sorella del protagonista principale, un uomo senza nome a cui è affidata la voce narrante.

È lui che introdurrà i personaggi, a partire dal padre, individuo grezzo, rancoroso, dedito al commercio di salumi e formaggi, che detesta i suoi clienti a cui riserva un odio profondo, nascosto sotto una patina di affabilità. Li vorrebbe tutti morti, quei clienti facoltosi sempre pronti a richiedere qualche grammo di formaggio in più, in omaggio: è così, abbassandosi senza vergogna a domandare un extra che pare loro dovuto per censo, che possono permettersi di costruirsi case su case, aumentando di giorno in giorno il loro potere su tutti, piccoli commercianti in primis, pensa l’uomo.

I bocconi amari del livore, quotidiani, li sfogherà all’interno della famiglia: la moglie, che si intuisce essere di altra levatura, succube tuttavia delle voglie dell’uomo; la figlia, sorella del personaggio centrale del libro, disprezzata perché di relazioni facili con uomini e donne, e il protagonista del romanzo stesso, che non è indifferente al clima di odio respirato in casa.

Infittendo la complessità della psicologia di chi racconta, Ciano ci fa precipitare in ragnatele vischiose di rapporti malati: invece di reagire in maniera positiva al tanto risentimento che lo circonda e pervade il figlio, edipicamente attratto dalla madre, figura angelicata, vessata, vorrebbe in cuor suo annientare il padre, freudianamente ucciderlo.

Al chiuso della stanza con camino in cui brucerà i suoi libri, anch’essi fonte di dubbio (bisogna sempre sospettare degli scrittori perché ogni romanzo scritto da mano umana è solo un egocentrico tentativo di disintegrarsi, arriverà a dire) il giovane protagonista medita sull’infelicità’ della sua famiglia e sulla pochezza della vita in sé, la morte, la follia, soprattutto sull’insensatezza della speranza.

La sua peculiare condizione si fa universale con un espediente letterario: Ciano sceglie di non donare né a lui, né agli altri personaggi, un nome proprio. Tutti sbattezzati, verranno identificati da definizioni generiche che tradiscono una sorta di disprezzo: un collega del padre diventerà un qualsiasi Commerciante di Sali e tabacchi, biasimato perché lucra sul vizio altrui, così come l’unica presenza femminile per brevissimo tempo a fianco del protagonista (che la rifiuta in malo modo) sarà soltanto La preparatrice di dolci da asporto, figurina sminuita, così come nulla più che Il riparatore di I-Phone verrà definito il compagno della sorella.

Ritirato da una società che schifa, in preda a meditazioni ben più alte dell’ordinarietà che lo circonda, il narratore a un certo punto pare sentirsi una presenza accanto, qualcuno intento a trascrivere i suoi pensieri. Si convince essere Thomas Bernhard – fra i più amati scrittori dell’autore del romanzo – che crede apparso nella sua vita per narrare la storia della sua famiglia al mondo. Immagina perciò di organizzare a tal scopo un incontro con lui sul lungomare, in una sorta di lucido sogno.

È solo dopo questo appuntamento che la nebbia pare diradarsi e tutte le cose ricadere al loro posto, delineandosi. Forse: perché tra apparenze, convinzioni personali e visioni, difficilmente passa una linea divisiva. Dopo Zeig (Giraldi editore) e Oltrepassare (A&B), recentemente tradotto, quest’ultimo, in albanese, Martino Ciano ci consegna un racconto onirico dal passo teso, incalzante, un flusso di coscienza confessionale in cui mescola riflessioni esistenziali su vita, morte, follia e sorte, e ritratti puntuali, accurati, di una società intimamente corrotta, priva di un’aura salvifica.

Una società in cui è facile perdere la propria identità, dissolvendosi (significativa, come si accennava sopra, l’assenza di patronimici).

La dissacrazione, punteggiata da pagine di ironia sottile, non lascia scampo a nessuno.

E ogni dubbio volutamente persiste anche dopo la risoluzione della vicenda, che nelle ultime pagine assume i toni del giallo pur non ricadendo nel genere (gli amanti dell’incasellamento letterario potrebbero avvicinare quest’opera più facilmente al pamphlet filosofico, a tratti al metaromanzo): è insomma davvero accaduto qualcosa nel passato di quest’uomo? E se sì, quanto ci sarà allora di reale nella vita dell’innominato personaggio? E anche qualora voci altrui, al di fuori dalla sua testa, dicano la loro su come si sono svolti i fatti, non sono anche questi pareri formati sulle sole sembianze? Si potrà fidare il protagonista di ciò che è apparenza?

D’altronde, possiamo farlo noi?

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