Se oggi nella scena letteraria italiana si parla di oralità, se studiosi come Ong, Zumthor, Jousse sono entrati nelle bibliografie di chi studia poesia, se oggi lo slam è un fenomeno capillare e la poesia con musica ha ritrovato una dignità critica ed estetica perché i critici italiani si sono dovuti piegare, se termini come spoken word e spoken music sono sempre più frequenti, e se almeno tre generazioni hanno sperimentato forme e modi nuovi nel fare/dire poesia, il merito è di una persona: Lello Voce.
Dopo aver percorso in lungo e in largo la poesia con musica assieme al sodale Frank Nemola e compagni di viaggio come Paolo Fresu, Michael Gross, Canio Loguercio (ne cito tre, tra i tanti), stupisce vedere il suo ultimo libro: Razos, uscito a fine 2022 per La Nave di Teseo. Ogni produzione degli ultimi 25 anni di Voce era corredata da CD, anzi, per essere più precisi: era il libro cartaceo una sorta di appendice del CD; ma questo oggetto letterario “muto” finisce con l’ultima pagina, non un disco, un vinile o un QR code che rimandi a un link esterno. Lello ha sempre “peccato” di una coerenza e una lealtà verso se stesso – invidiabili. Ma non poteva questo poeta atipico, che unisce una capacità compositiva invidiabile a sperimentazioni continue, smentirsi. Percorrendo questo binario, Razos è di nuovo appendice “muta”, residuo di un’oralità che echeggia in un altrove riattivato per l’occasione: nei lettori.
Le razos, scopriamo già dalla terza di copertina, sono “brevi componimenti in prosa di epoca trobadorica, che illustravano le ragioni, lo scopo e le istruzioni dell’esecuzione che faceva loro seguito”; rimandano a un medioevo di corti dove la poesia e il corpo del poeta erano pressoché inscindibili, dove scrittura e lettura dei propri testi (composizione ed esecuzione) viaggiavano sullo stesso binario e la pagina si configurava come morto orale, per dirla con Bene, era semplicemente uno spartito. Razos come le ragioni in prosa che utilizza Dante Alighieri per annunciare le sue poesie nel prosimetro Vita Nova. Solo che Voce è un figlio della contemporaneità; è cresciuto con e nel Fluxus, e certe procedure, sperimentazioni, le ha a tal punto introiettate da pensare al suo nuovo lavoro, durato quattro anni di gestazione e limatura, come un’opera aperta, che non solo coinvolge le pupille dei suoi lettori ma la loro capacità immaginifica e creatrice, dicendoci: io vi do le indicazioni ma le poesie ve le scrivete da voi. 17 Razos seguite da 17 madrigali, di cui il poeta riprende la forma antica e conferma il virtuosismo che ha pochi pari nel panorama compositivo della poesia contemporanea. La simbologia numerica del 17, dell’eptadecagono, la precisione progettuale, la maestria metrica e prosodica nelle poesie e soprattutto nella prosa, fanno di questa opera un fenomeno destinato a fare parlare di sé per molto tempo, con o senza l’ausilio dell’autore. Ci sono maestri che riattivano certe istanze, che aggiornano la propria lingua di dinamiche e procedure che si pensavano sopite e Lello Voce è uno di questi.
Per immaginare un mondo nuovo, dice spesso nei suoi interventi, bisogna costruire parole nuove. L’unico modo di rispettare la tradizione, continua, è quello di tradirla. Il primato della poesia sul romanzo, la sua vocazione orale anche sopra alla prigionia di carta a cui è stata costretta negli ultimi due secoli, le sue intenzioni musicali, la visionarietà e un ritorno al rigore filologico – sono solo alcune delle battaglie che fanno di Lello un “pasionario” della poesia, un guerriero armato di polpastrelli e infinite letture. Avrebbe molto amato questo libro Nanni Balestrini, un maestro e sodale a cui è dedicato; come l’avrebbero amato ugualmente Sanguineti e Pagliarani, Haroldo De Campos e Fortini, Giudici, Zanzotto e Rosselli, poeti che segnano il nostro Novecento e che in un modo o nell’altro, in polemica o sodalizio, hanno espresso pubblicamente la loro stima nei confronti di questo agitatore delle patrie lettere, sempre in prima linea contro chi usava la poesia come podere o aggettivo qualificativo della propria poetica. A piedi nudi, dopo avere vinto tutto quello che c’era da vincere, scritto ovunque e ovunque eseguito le proprie poesie, Lello Voce ci indica un terreno che rimane ancora inesplorato nel pensare e fare poesia, togliendosi la corona d’alloro perché non si confà all’ultimo dei trovatori che continua a essere sempre un passo avanti, a dettare una strada da percorre a piedi, poiché sa bene che nella strada, nella comunità, oltre che nei libri, si forgiano le sue più mirabolanti intuizioni.