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Un romanzo e una storia viva. Intervista a Giulia Scomazzon

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La casa editrice nottetempo ha deciso di iniziare la Collana di narrativa per il 2023 con “La paura ferisce come un coltello arrugginito” di Giulia Scomazzon. Un romanzo e una storia viva, bruciante, per recuperare la memoria di una madre scomparsa per Aids nel 1995 quando la figlia aveva solo otto anni

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Giulia, nottetempo ha scelto di pubblicare questo libro il 27 gennaio, una giornata non casuale; ci racconti, intanto come sei arrivata alla casa editrice milanese e come è nata questa urgenza di scrivere intorno a tua madre e, poi,cosa ti ha spinto a voler, in un certo senso, restituirle la memoria che avevi smarrito nell’infanzia assieme a una parte di te, e, ancora, se è cambiato qualcosa nel ricordo di Roberta alla fine della scrittura?

L’urgenza di scrivere attorno a mia madre nasce all’interno di un percorso terapeutico che seguivo per il trattamento del mio disturbo da attacchi di panico. Subito dopo il primo lockdown sono piombata in un vortice di paure che avevano l’effetto di disintegrare il mio “esserci qui e ora”, di disarticolare la mia unità come individuo. Ho compreso che il panico dopo i trent’anni aveva assunto la stessa identica forma e forza di quando ero bambina e, a due anni dalla morte di mia madre, rimanevo insonne e tremante nel letto fino all’alba, ossessionata dal pensiero di morire nel sonno. Questo rispecchiamento tra l’adulta che sono e la bambina che sono stata, mi ha fatto realizzare qualcosa che a li che avevo completamente perso, cioè rimosso, il ricordo di mia madre e allora ho sentito il bisogno di cercarlo dentro e fuori di me per renderlo finalmente visibile ai miei occhi e a quelli degli altri, delle persone che non mi hanno mai parlato di lei – mio padre, la mia famiglia, i colleghi e i pochi amici che aveva. Questa scrittura privata e terapeutica attorno a un vuoto a cui volevo e dovevo resistere ha subito preso la forma pubblica di un blog perché sentivo la dimensione diaristica limitante rispetto al valore collettivo che poteva assumere la mia storia privata: il trauma vissuto dagli orfani di Aids, l’esperienza generazionale di un lutto taciuto e, quindi, mai elaborato a fondo. Non avevo altre pretese oltre a questa, cioè trovare qualcuno che si riconoscesse nel mio dolore e negli sforzi per non farsi definire da esso, ma fortunatamente un’amica (Elisa Cuter, a cui sono immensamente grata) ha segnalato il mio blog ad Alessandro Gazoia, editor di
Nottetempo, che mi ha subito proposto di farne un libro e mi ha convinta (faticosamente) delle potenzialità della mia scrittura, che io trovavo priva di uno stile unitario, scissa tra un’impostazione intimista e una saggistica difficili da conciliare. Ho trovato la mia strada
grazie ad Alessandro che mi ha sempre spronato a non ricadere in quel silenzio che ha segnato il mio rapporto con il trauma. Il processo di scrittura ha trasformato il mio rapporto con la memoria e con l’assenza, ma mentirei se dicessi che mi ha restituito un’immagine finalmente “vera” e chiara di mia
madre. Piuttosto mi ha aiutato a metterla a distanza, a separarla da me attraverso
l’opera di distillazione ed esteriorizzazione messa in moto dalle parole che ho dovuto estrarre dalla parte più profonda e nascosta di me. Mia madre, per me, rimarrà sempre incastonata nelle poche righe che mio padre mi scrisse questa estate per raccontarla:
“Da giovane lavorò in fabbrica tutta l’estate per comprarsi una chitarra che non avrebbe mai imparato a suonare”. Ho imparato a convivere con questa sua “evanescenza”, assieme caratteriale ed esistenziale, e in un certo senso a staccarmi (o staccarci, io e lei assieme) dal suo destino di oblio.

In questo spazio su Satisfiction piace molto ai nostri lettori l’approfondimento sulla trama; ecco, a partire da quella e, tenendo conto che per lungo tempo la vera causa della
morte di tua madre Roberta ti viene tenuta nascosta, ci dettagli la figura della nonna e del padre?

Mia nonna e mio padre sono venuti a mancare nel giro degli ultimi tre anni, lasciandomi con un dolore che avrebbe potuto schiantarmi definitivamente, ma anche con una libertà che prima mi era ignota e che mi ha obbligato a prendermi cura di me stessa senza deleghe e attenuanti. A volte temo di essere stata troppo severa nel modo in cui li ho
raccontati, senza nascondere i limiti pedagogici del loro rapporto con me, ma avevo l’urgenza di confrontarmi con una rabbia che era rimasta sopita in me per anni; rabbia per i non detti, per una memoria che si è spenta nell’imbarazzo e nella vergogna per la malattia impronunciabile che ha ucciso mia madre. So che hanno tentato, a loro modo,
di proteggermi e di proteggersi. Per mio padre credo sia stata una reazione inconscia al suo status di sopravvissuto, all’Aids e alle overdosi che hanno falcidiato una vasta parte dei suoi amici in pochi anni, mentre per mia nonna è stata, anzitutto, la preservazione di una facciata moralistica che la aiutava a sentirsi al riparo dalle piccole e grandi malignità che corrono attaccate alle chiacchiere di paese (madre di uno spacciatore di eroina e moglie di un fedifrago). Negli ultimi anni della sua vita, la demenza senile aveva scompigliato la memoria di mia nonna, lasciandola in un loop di rancori e nostalgie dolorose da cui ho voluto fuggire, così come sono fuggita dai vizi e dall’irresponsabilità di mio padre fino al momento della breve malattia che l’ha ucciso dopo averci avvicinati come mai era accaduto prima. Esibendo i loro limiti ed errori ho esposto all’aria ferite antiche che, piano piano e grazie alla scrittura, hanno iniziato a cicatrizzarsi creando lo spazio per il perdono, per una riconciliazione con il loro ricordo.

Scrivi nel romanzo: “Il fatto che mia madre sia morta di AIDS è come il tassello di un puzzle con sporgenze o rientranze deformate: un’informazione tattile e visiva che non si riesce a incastrare da nessuna parte nella storia del ‘nostro’ passato, dei ‘nostri’ genitori, il segnale inequivocabile che io e gli altri orfani di AIDS siamo un errore di fabbricazione, una deviazione dalle norme dell’impianto sociale, della Famiglia.”Ho letto, quasi contemporaneamente, il libro pubblicato da 66thand2nd dal titolo “Giuliano Giuliani, più solo di un portiere” di Paolo Tomaselli, in cui si racconta la vita e la morte del primo portiere di calcio morto sieropositivo. Inutile dire che per molti aspetti i due libri dialogano tra di loro e in questo mondo, che macina tutto con gran fretta, bisogna salutare con interesse l’arrivo di libri come questi che restituiscono giustizia alla memoria. Ecco, a partire da quella deviazione e da quell’errore di fabbrica ci spieghi meglio della marchiatura con cui la società ha continuato a condannare al silenzio quelle morti e alla solitudine i familiari dei malati e se qualcosa è cambiato?

Nel libro dico che è necessario uno sforzo immaginativo che superi gli stereotipi
preconfezionati per riuscire a vedere davvero una madre, un’operaia che muore di Aids nella provincia veneta all’inizio degli anni Novanta. La tossicodipendenza dei miei genitori a vent’anni ha segnato il destino della famiglia che avevano deciso di costruire e con cui speravano di emanciparsi dagli sbandamenti e dagli errori di gioventù, realizzandosi in una vita normale, “borghese” avrebbe detto mio padre anche se entrambi erano proletari (mia madre operaia in fabbrica e mio padre operaio edile). L’Aids ha condannato una generazione di ex-tossicodipendenti a uno stigma sociale che li inchiodava a una colpa eterna e mortale. “L’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare” diceva ilministro della sanità Donat-Cattin all’inizio dell’epidemia e io credo che l’Italia democristiana e craxiana di quegli anni condividesse in larghissima parte questa visione spietata, che ha trasformato quella malattia devastante prima in colpa e poi in vergogna in un contesto medico che non lasciava speranze per i malati fino almeno al 1996. Le famiglie composte da sieropositivi erano famiglie di serie B, irrimediabilmente definite da una scelta giovanile che spesso, come nel caso di mia madre, era stata la risposta a un
disagio generazionale che la politica e la società degli anni Ottanta non voleva né
sapeva ascoltare, seppellendo il malessere giovanile sotto strati di apparenze consumistiche. Esporre l’amore che ha legato madri e padri malati a figli destinati a un lutto prematuro è uno dei primi e più importanti obiettivi del mio lavoro.

Buona Lettura de “La paura ferisce come un coltello arrugginito” di Giulia Scomazzon.

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