Gli specchi hanno stregato il pensiero di poeti, scrittori e comuni mortali. Moltiplicatori insonni e fatali li chiama Borges; Specchio del principe era il nome di un genere letterario del Medioevo, testo che voleva riflettere le qualità morali dei sovrani; come moneta di scambio li usarono i conquistadores arrivati in America. Specchi sempre interi, uniformi nel riflettere l’immagine che li si pone davanti. C’è chi li teme, chi li venera perché venera sé stesso e chi li evita insofferente al proprio rilesso.
Giampiero Romanò è assai lontano sia dai pavidi che dai narcisi. Si avvicina agli specchi per fare i conti con loro, con sé stesso. Uomo di pensiero concreto, non bada a superstizioni all’ora di romperli per farli parlare. Gli anni di disgrazia sono già arrivati mentre lo specchio intero ci diceva che i più belli del reame eravamo noi.
Incontro Giampiero la prima volta per caso a Milano, nello store Seletti nella settimana del Design, davanti alla sua opera Tetris. Snello e inquieto, parla con voce rauca, graffiante e muove le mani segnate dal lavoro. Pendolare col furgone arriva dalla Brianza, da un’antica tradizione famigliare di ebanisti, e non riesce, non è mai riuscito, a stare fermo. Impara l’arte del restauro, un po’ a casa, un po’ ai corsi, tanto a bottega, e poi taglia, spacca, spara e cerca. Abbraccia e onora la storia, sviscera il presente e sogna un futuro a cui lasciare un suo segno.
Parleremo nel suo studio a Milano, vicino a porta Venezia, tra tavolini antichi intarsiati di quadrifogli, vecchie cornici, moderne stampe e spechi rotti.
Da dove arrivi?
«Arrivo dalla Brianza. Mio padre era un ebanista e mio nonno anche. Gente che andava in giro a trovare la piante, a scegliere l’essenza giusta per poi disegnare il mobile e crearlo con le proprie mani.
Mio padre voleva che diventassi Disegnatore tecnico del mobile. Io per un paio di anni ci ho provato, ma non mi piaceva. Allora ho fatto un corso di Ebanista e restauratore professionale, sovvenzionato dalla Regione Lombardia. Verso la fine ho vinto un concorso per fare il Costruttore teatrale alla Scala di Milano. Il giorno che mi dovevo presentare ero così spaventato che, invece di andare lì, sono andato al Parco. Da lì a poco avevo l’ultimo esame e sul mio libro di Storia del mobile c’erano trenta pagine sui mobili falsi e sul restauro conservativo. Mi si sono illuminati gli occhi. Non ho mai studiato così tanto e al contempo non mi è servito studiare, era come se sapessi già tutto.»
Cosa hai fatto dopo?
«Avendo la fortuna che mio padre facesse il falegname, mi sono preso un pezzettino di bottega e sono andato in giro per Milano a dire che facevo il restauratore. Restaurare significa sapere fare tutto: l’intagliatore, il falegname, il fabbro, perché ci sono le serrature. Sono anche andato a lavorare gratis da un vecchietto per imparare a lucidare, e così per ogni cosa. Venivo a Milano e andavo ai mercatini. Facevo il giro una volta a settimana, ritiravo i mobili, li restauravo e poi li riportavo. Nel frattempo ho fatto il militare e, dopo tre giorni che ero lì, hanno aperto un laboratorio per me: falegnameria e restauro. Ho restaurato tutti i mobili della caserma e lucidato tutte le persiane. Questa è stata la mia gavetta.»
E come sei arrivato in questo posto?
«Nel ’97 avevo già dieci anni di esperienza in Brianza e sono venuto a Milano. Ho trovato un negozietto da affittare e appena ho tirato sù la clér avevo due mobili da restaurare. ‘Quando avrò cinquant’anni voglio fare per me, non per gli altri’, questo era il mio sogno.»
Come sei passato alla sperimentazione?
«Trent’anni fa avevo trovato la base di un tavolo bellissimo, sembrava un ragno cappottato, però mancava il piano. Quindi ho restaurato la base e poi ci ho messo un piano in cristallo sotto il quale si vedevano gli intarsi eseguiti da me, bellissimo, e l’ho venduto ad un mio amico. Girando poi i mercatini ho imparato a riconoscere gli oggetti e ho iniziato a innamorarmi del Design. Ho iniziato a vedere cose che prima non notavo. Cose che quando le vedi pensi: ma quanto erano avanti, sessant’anni fa? Giò Ponti, Parisi.
La missione del restauratore è cercare di far rivivere l’oggetto, di riportarlo al suo splendore originale, quando le cose si facevano a mano, una a una, senza macchine. E’ sempre importante conoscere chi, prima di te, ha creato, ha fatto. Sapere come lavoravano cento, duecento anni fa. Da un mobile antico tu capisci gli stili, i pensieri di quel tempo, perché l’arte rispecchia sempre la società, lo stile di vita, le guerre. Da lì in poi puoi rivoluzionare tutto con il tuo concetto, i tuoi pensieri. Puoi ricreare un oggetto partendo dalla Storia o partendo dal nulla.»
Le cornici che utilizzi sono tutte antiche?
«Sì, le cornici sono tutte antiche. Devono avere delle caratteristiche per poterle tagliare. I francesi, per esempio, le facevano col gesso, non le puoi tagliare. Ma io lavoro molto con le nostre, le cerco qui, in Lombardia e in tutta Italia.»
E quando hai iniziato a rompere gli specchi?
«Ho iniziato praticamente sei anni fa. Stavo eseguendo una collezione a Pierpaolo Ferrari e Maurizio Cattelan, per Toilet Paper, dove tante specchiere antiche facevamo uno specchio nuovo con la loro grafica. Si esegue facendo un stampa su un vetro che poi dietro si va ad argentare.
Ero in una azienda ad argentare e ho visto che argentavano un vetro strafine, da sette decimi di millimetro. Allora ho iniziato a fare un po’ di prove. Prendendo queste lastre, appoggiandole per terra su un polistirolo e con una pistola vera a gas, con dei pallini rivestiti di plastica dura, se spari rimane el buco e partono un po’ le crepe, ed è bello che partono col tempo. Così nasce, in collaborazione con il mio amico Andrea Ghisalberti, Privacy questo specchio con dei buchi, dietro i quali ci sono degli occhi che ci guardano, perché oggi non sei più libero, puoi essere sempre visto o registrato, ci sono i social le telecamere ovunque.»
E così gli oggetti che prima restauravi ora diventano opere. Qual è stata la prima?
«La Tetris è la madre di tutti. E’ la prima con questo concetto. La cornice, restaurata, è madre terra, lo specchio siamo noi. Tanti miei clienti arrivati dal mondo del restauro, quando vedevano una cornice così antica tagliata mi dicevano ‘ma sei un criminale’, e io dicevo sì, ho capito, ma le cose stanno così. Siamo nella merda. Normale la specchiera non la vuole nessuno, non la vede nessuno. Nessuno ci fa più caso a questa grandissima arte che siamo stati. Tu le riporti al loro splendore ma nessuno le vede. Allora ho iniziato a sezionarli, a tagliarli, e lì si vedono, lì c’è un cambiamento, un messaggio.»
Cambia la funzione.
«Si, è il continuo di questo concetto. Noi, che siamo specchio, teniamo il cambiamento, ma a queso punto noi, nel bene e nel male, oltre a tenere il cambiamento dobbiamo cambiare. Io quando ero piccolino stavo un quarto d’ora a lavarmi i denti, ora spengo l’acqua, sgrido i bambini di fare veloci a far la doccia. Siamo cresciuti in una generazione dove tutto ancora c’era, che magari ha dato la mazzolata finale.
Questo è il mio messaggio, dopodiché io mi diverto.»
E se qualcuno legge qualcosa di diverso? Per te, è importante che chi guarda conosca il tuo messaggio?
«Io voglio che ci sia un’emozione, positiva o negativa, va bene. Intanto l’hai vista e ti ha dato un’emozione. Io non ho mai spiegato a nessuno il mio concetto, perché è mio. Ognuno può interpretarlo a modo suo. Ma dietro ci deve sempre essere un pensiero.»
Perché lo fai?
«Lo faccio per lasciare un segno, non una traccia, un segno, qualcosa che si legga. Magari domani lo vedi in un altro modo, tiri fuori la tua idea e può essere un segno incredibile per me. L’artista si fa voce del suo tempo e spesso non sa nemmeno tanto bene cosa ha detto.
Mi piace l’immagine del sognatore, la vita del sognatore. Mi piace sognare cose che magari non esistono, avere un’illusione, come se in parte fossi rimasto bambino. Quando ero piccolino i miei giochi erano fare la casette, tagliare i pezzi di legno. Ero figlio unico e per giocare andavo in bottega e iniziavo a far casino. I miei ricordi mi fanno tornare là. Poi sì, sono un professionista, so fare le cose, e ora dico che faccio il mago.»
Il mago?
«Per trent’anni ho detto alla gente che a volte aveva da dire su qualche dettaglio: ‘Tu mi dai un mobile distrutto, io lo posso restaurare ma non posso dartene uno nuovo, io non sono un mago’. Adesso, invece, faccio il mago, ritorno bambino. Cerco di fare così forse perché mentalmente mi fa stare bene. Perché se io arrivo la mattina e c’è solo da fare questo tavolo, e poi entra la sciura e mi porta la gamba del tavolo, io mi deprimo. Io non vado dallo psicologo, non prendo psicofarmaci, non bevo, io sono così. Poi ci sono gli artisti che ironizzano spesso la morte. Li capisco. Ognuno sconfigge la paura di andare di là a modo suo. E’ rubare il tempo.»
Queste scatole di legno che stai preparando le fai tu? Dove vanno queste opere?
«Queste scatole le ha fatto mio padre, ha accettato quello che faccio e si diverse anche lui. Sto imballando le opere da portare alla fiera d’arte a Dubai e sono felice, dietro c’è tutta la mia vita, la mia ricerca.»
Il tuo sogno ora?
«Continuare a sognare, generare nuove idee. Sono arrivato ai cinquanta e faccio per me come desideravo, ora mi piacerebbe avere lo spazio per fare mezza giornata alla settimana un ritrovo con amici, con altri artisti, un salottino dove conversare, tirare fuori i propri disegni, le idee, e vedere cosa succede. Non sai mai cosa viene fuori da un incontro tra creativi. Un pensiero ricorrente va ai miei due figli, con la speranza che un giorno entrino nel mondo che ho creato e continuino a divertirsi e a creare, con i loro pensieri e le loro idee, perché creare ti rende invincibile e immortale.»