Chi pensa di essere “nuovo” è un cretino, chi ci crede è un ignorante.
Non esiste altare più castrante, musa più mefitica, dell’originalità. Certe cose si raggiungono, ammesso che sia possibile raggiungerle, per puro caso. Ed è assai probabile che salutiamo, entusiasti come cagnolini, l’unicità solo dove non arriva la nostra erudizione e la battezziamo così, quindi, per mera ignoranza. Nessuno, del resto, si fa raggirare più facilmente degli entusiasti.
Quante ispirazioni, quanti venti creativi, sono andati perduti, quante pagine abortite perché quanto si andava scrivendo ci sembrava già detto, già letto.
Alberto Laiseca, scrittore argentino tra i più anarchici e complessi, un mostro, un Frankenstein frutto di un amalgama di pezzi sparsi tra l’erudito e il teppista, l’huligano e il giocoliere, l’uomo che prendeva i Nani a bastonate e aveva la chiave per risvegliare l’antico Chanchubelo viene con, Per favore, plagiatemi! Edito dalle edizioni Wojtek e con la traduzione di Loris Tassi ad afferrare, strappare dai cardini e gettare nel fuoco le porte della proprietà intellettuale invocando il plagio.
Ci sono, scrive Laiseca stesso, porte d’ingresso al caos. Una di queste, la più ariosa, è il plagio consapevole. L’essere umano è una creatura dal pensiero ruminante. Da quando esiste, pensa sempre a quella che Douglas Adams nella Guida intergalattica per gli austoppisti definiva la domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto. E se la risposta non è “42” di certo la stiamo ancora cercando e il modo, il cammino lento e ricorrente, è sempre lo stesso. Le storie si ripetono, gli incastri, persino gli stili. Gli uomini – potremmo affermare plagiando Péguy – scendono per lo stesso sentiero dove altri salgono, in una continua transumanza alla ricerca di Dio, del senso e dello stare al mondo, perché ogni argomento torna in un costante bolo riflessivo e non c’è nulla che ci possa portare altrove. Lo stesso Ricardo Piglia, come ci ricordano i curatori Arnoldi, Mignola e Zucchi, nella prefazione a questo testo tanto particolare, sostiene che l’unico modo per capire un testo letterario è raccontarlo di nuovo e che tutti compartecipano al processo creativo, soprattutto il lettore il quale si immedesima, introietta, ricorda e di nuovo crea una storia nuova a partire da quella che altrove ha sentito. Chiunque sia cresciuto in una piccola comunità, chiunque sia stato attento alle dinamiche che intercorrono all’interno di quello che comunemente viene definito “inciucio” sa che un episodio narrato da uno, di bocca in bocca passando, si deforma, si amplifica e chiunque lo racconta per l’ennesima volta lo riscrive in un plagio autentico e pirotecnico.
Alberto Laiseca è stato uno scrittore tipicamente argentino, di quelli che discendono da Macedonio Fernandez e, in quanto tale, portava lo stigma della refrattarietà. Massimo esperto nel sabotare se stesso, si aggirava per Buenos Aires senza penna. Per scrivere gli amici gliela dovevano prestare, insieme alla carta. Raccolse scritti per quasi tutta la vita senza volerli pubblicare. Agli amici che lo invitavano a tagliare i suoi libri, editarli, per renderli presentabili agli editori, rispondeva con le grida del demone che si scontra con l’acquasantiera. Si mosse sempre nel mondo delle lettere come un cane in chiesa, con il sorriso astuto sotto i lunghi baffi filosofici. Era più leggenda che vivo, più storie che umano. Un erudito sorprendente e questo saggio, definito dai curatori un poema epico dell’intertestualità, lo dimostra. Laiseca, come spesso scopriamo nei ludici, sa tutto del gioco di cui è appassionato. In questo saggio passa da Lovecraft a Swift, dal Buddismo al Cristianesimo. Inoltre smonta il concetto classico del saggio e lo ibrida con la creazione narrativa. Come facevano gli esistenzialisti, Laiseca si serve della narrazione per rendere accessibili le sue teorie. Il racconto è uno strumento mimetico, un esercizio di trasformismo ma, a differenza di Sartre e Blanchot, Laiseca è un selvaggio alla maniera dei detective poeti Belano e Lima protagonisti del celebre romanzo di Bolano. Laiseca è un cercatore nel deserto che cammina all’indietro con le spalle rivolte verso l’abisso. È un perdente affascinante, uno strappa radici.
Per la indomabile e famelica voracità stilistica di Laiseca, tradurre questo saggio deve essere stato di una fatica erculea. Loris Tassi nelle vesti cangianti del traduttore, come in questo caso, e del curatore e del ricercatore instancabile in altri, continua a fare, per tutti gli amanti della letteratura ispanoamericana, un lavoro impagabile. Chiunque abbia a cuore quelle strade periferiche lontane dalle guide letterarie, tutti i lettori che fremono di fronte all’inconsueto, quelli per cui uno scritto più è strano, più è eccentrico, più è irresistibile, in questi anni ha imparato il nome di Tassi e lo benedice.
Quello che ci resta, di questo saggio, è la perdita di una certa affannosa zavorra. Se ci abbandoniamo al plagio, a me sembra ci dica Laiseca, ci sentiremo come quei viaggiatori in mongolfiera che per volare più in alto e sicuri, gettano via tutti i bagagli perché certe accuse, scrive questo strano argentino, sono l’atto di disperazione dei mediocri. Prima che si accorgano, racconta, che all’edificio non abbiamo aggiunto nemmeno un batacchio e smettano di prenderci sul serio, avremo buttato giù cinque tomi.
Di fronte a questo radicale “liberi tutti” ogni autore che sia – come obbligatoriamente dovrebbe essere – un avido lettore, si sentirà un’ape in un campo fiorito, libera di fare il miele con tutto il polline a disposizione incurante che altre api di lì già siano passate.
Pierangelo Consoli
Alberto Laiseca, Per favore, plagiatemi! (plagiando sistematicamente e progressivamente) Edizioni Wojtek 2023, Pp. 236, euro 22.