Le figure di Lichtenberg, detti anche fiori di fulmine, sono figure a diramazione di scariche elettriche che compaiono sulla superficie di un corpo colpito da un fulmine. Sono cicatrici rosse, quasi ricami floreali, che vestono la pelle della vittima; i vestiti sono vaporizzati, lasciando la figura nuda.
Questo fenomeno naturale dà il titolo alla raccolta poetica di esordio del celebrato scrittore americano Ben Lerner, pubblicata in America nel 2004 e vincitrice del Hayden Carruth Prize, che Edizioni Tlon ha riscoperto e portato nell’editoria italiana nel 2017, nella traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, dopo il successo dei romanzi Leaving the Athocha Station (Un uomo di passaggio, Neri Pozza) e 10:04 (Nel mondo a venire, Sellerio).
La poesia di Lerner colpisce, denuda, lascia tracce sul corpo di chi vi si immerge. Come nella sua prosa, c’è il tentativo di riavvicinarsi a un’idea del linguaggio come forza creativa e distruttrice, che non idealizza il mondo, ma lo rappresenta con il più profondo e amaro realismo, dando il potere alle parole di parlare non solo attraverso il loro significato, ma anche e soprattutto attraverso il loro suono.
Non a caso, il protagonista del suo secondo romanzo, alla domanda sul perché il protagonista abbia deciso di fare il poeta, risponde che accadde all’età di sette anni quando ascoltò il discorso con cui Ronald Reagan annunciò la disintegrazione della navicella spaziale Challenger: «Il significato delle parole è nulla in confronto a quella prima esperienza di metro poetico: mi sentii allo stesso tempo confortato e commosso dal ritmo e capii che da una parte all’altra dell’America quei ritmi stavano agendo su milioni di corpi.»
La musica dei suoi versi è inquieta, è di sonorità agghiaccianti che tagliano, gridano, stritolano come un pezzo di Prokofiev, colonna sonora di un paesaggio-scenario arido, quello di Topeka, in Kansas, dove l’autore è nato e cresciuto: una città spigolosa, con i palazzi contemporanei delle periferie squallidi, dai colori terrosi.
Infatti, esattamente quanto i suoi romanzi tendono alla poesia, la sua poesia aspira alla prosa o meglio a un’antipoesia, priva di fronzoli, che abbia l’odore di gomma bruciata e la musica dei clacson, ricercando l’essenza del reale nella sua orrida e meravigliosamente umana bellezza.
«C’è sofferenza in ogni altro luogo,
ma qui nel Kansas le nostre conoscenze
ci violentano con tenerezza e rimangono immutate.
La Bellezza alza la sua terrificante testa.
Le ho rotto il braccio per poterle firmare il gesso.»
Sfilano e danzano un’infinità di interrogativi, la follia, il dolore, la morte del padre e dell’ultima donna amata, un’umanità superficiale, apatica che invecchia, marcisce, non vive.
«Dobbiamo scoiare, investire il nostro saio.
Se vi può consolare, noi ammiriamo il primo John Ashbery.
Se vi può consolare, non sentirete niente.»
Quella che ci presenta Lerner è una modernità atroce, orrore di estetica e di suoni, che però è l’unica cosa che rimane e che la poesia può solo tentare di toccare, mostrare spogliandoci, togliendoci le scarpe, i denti, i nostri singhiozzi, ricoprendoci il corpo di cicatrici create da un fulmine di inchiostro, tagliandoci, aprendoci gli occhi come un chirurgo, con la lama affilata che dipinge e suona della sua penna.