«Milano, nella sua casa, fra i suoi libri, fra i piccoli oggetti preziosi che ha comprato in giro per il mondo, fra le sue candele sempre accese e le decine e decine di bottiglie ben allineate sul tavolo di mogano dell’angolo bar, gli sembrava un rifugio antiaereo» scriveva Tondelli. Le cose materiali sono protagoniste nell’inizio del nuovo romanzo di Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, edito da Mondadori. Casa, ascensore, vestiti, scarpe, simboli del quotidiano e della discontinuità, uniti al mantra del parere popolare, per l’abbandono terapeutico delle cose materiali. Perché? Non ha senso, si dice l’autore: «Non riescono a capire che dai ricordi sono invaso». Inizia l’egida dell’irrealtà, in un memoir delicato, scarno e pacifico.
Cosa significa sopravvivere dovrebbe essere il tema del libro, forse non lo è. «L’assenza di intenzioni» mi ha colpito di più. Il sopravvivere deriva dall’assenza ed essa esiste solo nel soggetto che rimane, come da titolo. Per ciò il memoir di Matteo B. Bianchi è un viaggio illecito, tra gli oggetti e le persone che si avvicinano. Quindi è tutto. È poco altro la prosa essenziale, i flash come un post-it sul tavolo dell’ingresso, davanti una sala vuota sono parte della storia, della libertà di scriversi. Le parole e i pensieri diventano man mano, come ci si attende da uno scrittore, le uniche cose materiali. La geografia di un amore rimane lo strumento dell’abbandono dello stesso. Dove accade e perché, ossia chi. Dopo le scene iniziali, ci si immerge nel passato prossimo, che tale è diventato: prima dell’assenza il vissuto diviene lontano ed è un escamotage. All’improvviso, si cerca nella memoria del proprio tempo fatto di ricordi eterei, non visuali, per colpa di un’epoca analogica. Si palesa, nella mia testa, l’immagine di Pier Vittorio Tondelli, di Camere separate, che lo stesso autore de La vita di chi resta, inconsapevolmente, mi spinge a rileggere con il passaggio: «Non rileggo mai un libro due volte. Almeno non per intero». Bianchi parla della raccolta di racconti che sfoglia sul tram nell’ultimo giorno prima del dolore. Non è di Tondelli, non potrebbe esserlo. Poco importa.
Mi chiedo se il tema del romanzo sia il dolore. Il dolore che porta l’assenza di iniziativa. Non è proprio così. Dolore è un termine improprio, c’è scritto. Il dolore, nel testo, sembra estraniazione. Estraniazione dalla paura, dalle ansie, dai successi. Estraniazione dal ruolo umano dietro un «vetro». Il primo momento per lui autentico, dopo tanto, è quando un autore gli consiglia di prendere appunti: l’altro scrittore lo riconosce, nel suo essere fuori dalle regole, alieno prima della strada per «risalire». Intanto emergono riti mentali, che si incontrano nel lasciare o nell’essere lasciati. Il protagonista del libro vive un abbandono totale, è questa la differenza. Mentre si allontana dai sentimenti, con la gradualità e la prepotenza propria della situazione, è costretto a vivere una perdita assoluta: metafora che diventa verità. Allora il desiderio compare a lenire, in maniera creativa, in qualche modo. Con Carrère che firma gli episodi di Les Revenants e lui ci proietta la gioia ormai impossibile dello spiegarsi fino in fondo. Si parla di resistere. Arriva l’ispirazione per capire il tema del romanzo: l’inerzia, ossia la resistenza. I libri che parlano di resistenza non si posano nemmeno sotto tortura, in un singolare gioco di specchi. Sono esperienze che attraversano, quasi come fosse obbligatoria, la fase della colpa. La vita di chi resta è colpa, momentanea. Delitto perlomeno condiviso con gli altri, che qualcuno in maniera goffa, e altri in modo esemplare, affrontano. È un incastro che evoca il più banale dei concetti. Come scrive Edmund White, in La vita di prima: «Sì, ci vuole coraggio a innamorarsi. È come passeggiare distrattamente, fingendo di condurre una vita ordinaria, mentre in realtà si sta camminando in punta di piedi sul bordo di un burrone, vicino al cratere di un vulcano con il suo deposito di lava incandescente».
A metà della narrazione – che si costruisce intorno al punto di rottura, rimettendo insieme i pixel della sera che ha cambiato l’universo dell’autore – ci si chiede, credo in maniera diffusa, cosa sia la diversità. Diversità è una parola che cambia significante nel tempo. Evoca il gap culturale tra i due uomini protagonisti del memoir. Il primo, intellettuale, immerso nella Milano creativa, tra musica, libri e agenzie di comunicazione; il secondo, manovale, autista, padre di famiglia, a un certo punto lavoratore saltuario. Il primo, riflessivo e attaccato all’opinione degli altri, nella misura giusta; il secondo, poco interessato alle regole sociali, alle gerarchie di turno, legato al momento quasi fosse un personaggio pasoliniano. La diversità è una caratteristica singolare: favorisce l’inizio di una relazione e allontana nel mentre, anche se – ben descritto – c’è il ritorno di fiamma per l’imprevisto, metafora una caldaia nella sera al centro di Roma, a parlare di storie, astrazioni e sigarette. Alla diversità nell’interpretazione di un ruolo non crede più nessuno. In un dialogo, il Thomas Bernhard di Perturbamento, descrive: «Certe persone che non ci sono simpatiche non le lasciamo recitare nello spettacolo che abbiamo allestito; se vi si introducono, noi le scacciamo. Se uno si rende perfettamente conto dell’aspetto meccanico del proprio corpo, non riesce più a respirare».
Matteo B. Bianchi dice di aver stabilito «diverse successioni», di aver spostato «cose e persone nel tempo». Aggiunge: «Dovessero chiedermi cosa c’è di vero in questo libro, risponderei, senza esitazione: tutto». Si chiama fuori da possibili confusioni e le alimenta. È l’ultimo passo della strada compiuta, appuntata, scritta con la memoria. Non si affrancano l’esistenza reale e la letteratura. Spesso così coincidenti da essere imperturbabili, di fronte all’esposizione in un grande festival o nella mente del singolo. Parte il primo tour dell’autore, per presentare il suo esordio, chiuso poco prima del suicidio dell’ex compagno, in cui risultano evidenti tracce di vita e non potrebbe essere altrimenti. Finisce, nello spazio letterario che non è diverso dal reale, con il memoir di cui parliamo, che corre pieno di idee irrisolte fino al niente da poter scrivere, il momento in cui si chiude. La narrazione di una storia non è viverla, vivere una storia è semplicemente narrarla. Fa così Matteo B. Bianchi, in questo libro pieno di fantasmi, dall’inizio alla fine. Scrittore, editor, autore per la radio e la tivvù, curatore della rivista letteraria ‘tina, ci fa conoscere un aspetto per aprirne altri, comincia dal non sentire e finisce con una solida spiegazione. Parla della prevenzione, dell’ascolto. Racconta della ricerca e dell’esternalizzazione della stessa, tra medici, maghi e sopravvissuti. La vita di chi resta è commovente e utile, abbraccia il valore letterario di un testo per intero: la comunicazione di sé e la non-unicità del messaggio. In una riunione di letterati, spicca così per sensazioni positive, dentro un olocausto di ricordi da smarrirsi.
Federico Di Gregorio