Mattia Insolia ha il privilegio di riuscire a rendere antipatici i protagonisti delle sue storie. Privilegio per nulla scontato, oserei dire coraggioso, in un panorama editoriale permeato da una coltre perbenista e livellante. L’aveva già fatto con la sua opera d’esordio, Gli affamati (Ponte alle Grazie) che gli valse il consenso di critica e pubblico (oltre a una candidatura allo Strega) e lo rifà oggi, alla sua seconda prova in libreria, per molti, la più ostica da sostenere. E se per scrollarci di dosso la furia dei fratelli Antonio e Paolo c’erano voluti alcuni giorni, per somatizzare e accettare gli errori di Riccardo Giordano e suo figlio Niccolò, vi avverto, ce ne vorranno molti di più.
Insolia torna a indagare una generazione, quella che oggi definiremo “Z”, rapportandola ai fallimenti della precedente, anche se in questo caso, più che di un rapporto, ci si muove nel terreno del confronto.
C’è violenza in questo testo, violenza in ciò che accade e in come ci viene raccontato. Riccardo è il padre, Niccolò il figlio, due micce accese da uno stesso rancore, il cui legame sembra essersi fermato alla genetica. Un padre meteora che ripudia il suo ruolo e un diciottenne incazzato a morte con qualcosa che nemmeno lui riesce a comprendere. Il suo corpo è una palestra in continua tensione, la sua immagine allo specchio è un totem da curare e riverire, non c’è traccia di empatia negli occhi del ragazzo, nessuna concessione alla debolezza, nessun cedimento. L’unica religione concessa è una foto di Padre Pio sopra un vecchio portapillole rubato alla madre in cui il ragazzo nasconde fumo, acidi e coca. La cura.
In casa vige un’unica regola: il padre non esiste. Sua madre l’ha ripudiato, cancellato a forza per qualcosa accaduto in passato di cui Niccolò è allo scuro. C’è un timore sepolto nello sguardo della madre, Teresa, un’ombra che si sforza di reprimere con la rabbia e le imposizioni, ogni volta che incrocia lo sguardo del figlio e ne scorge ciò che scorre sotto la superficie. Il lascito del padre.
«Un essere inanimato, ecco cos’era Teresa. Un essere inanimato con una storia da due soldi e passioni, hobby, piaceri del tutto comuni. Eppure l’era sempre parsa felice. Sorrideva, quel manichino. Era un sorriso di plastica, ok, ma era pur sempre un sorriso. Aveva trovato una tranquillità in cui abitare, e della sua vita Teresa sembrava parecchio soddisfatta. Felice, ma soprattutto serena. Rompeva il cazzo a ogni sospiro, sì, ma Niccolò era convinto che la sua fosse solo una posa.»
E si potrebbe andare avanti in questo modo, nel continuo “lasciarsi accadere” della vita, ruggendo, chinando il capo, per poi esplodere di nuovo, convinti in questo modo di poter raggiungere negli anni una specie di equilibrio, una tregua, semmai. Ma lasciarsi accadere è qualcosa che Riccardo non è più disposto ad accettare. Per lui, ancor meno per il figlio. C’è un ultimo compito da adempiere, un dovere a cui non può sottrarsi, lui, che nella vita non si è mai lasciato sottomettere da nessuno, quel giorno d’inverno del 2019, quando si presenta per l’ennesima alla porta di casa della moglie, appoggiato alla sua Ford Fiesta, chiuso nelle spalle, occhi piantati a terra, come un morto che cammina, Niccolò già lo intuisce. Quella visita non sarà come le altre.
«La periferia di Paloma, palazzoni orripilanti e torturati dall’incuria dei beoti che ci vivevano, tutti graffiti e piscio di randagi, sfilava oltre i finestrini.
Era un panorama schifo, pensò Niccolò. Impilati negli edifici scassati c’erano i figli deficienti, sottodotati, di un Dio inerte. Gente che la vita non la conosceva, abituata com’era alla sopravvivenza più inetta. E per loro, per quei disgraziati di natura, per quelle bestie, lui non provava che disgusto e fastidio.»
È in questo modo che inizia l’On the Road di Insolia, con un figlio che vorrebbe far di tutto tranne imbarcarsi in quel viaggio assurdo, con un padre che centellina le parole fregandosene dei limiti e un lettore che già sa come andrà a finire questa storia.
L’autore ce lo dice nelle prime pagine e in questo disvelarsi prematuro e necessario sembra quasi di scorgere una dichiarazione d’intenti: nessun mistero da svelare, nessun enigma da comprendere che non sia quello dell’esistenza umana. Di una vita che a volte mette al mondo persone cattive per il semplice motivo che così deve andare. Mattia Insolia, in questo astenersi da un giudizio ne sta facendo la sua voce, nel lasciar parlare i suoi personaggi, nelle movenze di corpi-slavine partoriti da una lingua sfrontata e profondamente umana, nel suo tentativo continuo di tracciare una linea credibile in mezzo a un cielo plumbeo, dove per scorgere mezza stella tocca fare una fatica immonda.
Non ci sono trucchi da celare, non ci sono strutture da comprendere, il focus resta fisso sui personaggi, quello che sono quando li incontriamo e ciò che saranno quando li saluteremo. L’autore è bravo a intrecciare due vicende che si muovono su piani temporali diversi, legandole a un cordone esplicito fin da subito. Niccolò e Riccardo, Paloma, inverno 2019 e poi un passo indietro fino all’estate di Camporotondo del 2000. Teresa qui ha sedici anni e un disagio che si porta appresso come una zavorra. Il suo corpo è una crisalide sgraziata alla stregua di una madre vittima di un incidente debilitante.
«Era quella bellezza immobile a pungolarle il mollume che la riempiva. Funzionava come per contrasto, tutto ciò che era ben fatto le ricordava quanto facesse schifo lei. Era nata brutta, difettosa, strana. E lo accettava. Ma perché non le veniva data un po’ della bellezza che la circondava? Se era stata madre natura, quella cattiva, a negarle ciò che avevano gli altri, perché ora il mondo si ostinava a escluderla dalla sua festa?»
La morsa della religione incombe tra le mura domestiche mentre la donna di casa detta la sua legge mortificante e un padre inerme si limita a osservare tutto quel dolore trasformarsi nel “più rigido dei capifamiglia”.
Lungo questa autostrada del disfacimento c’è un modo di guardare al passato e uno al presente che per qualche ragione riescono a sembrare così simili eppure, al tempo stesso, così dannatamente lontani che il lettore si trova più volte a chiedersi quale sia il punto esatto in cui si è passato il limite. Nel mentre, la lingua scalpita, scaraventandoci in una saga famigliare di cui ci sentiamo inaspettatamente complici e furiosi antagonisti, perché il bisogno di venire alle mani, davanti a certe situazioni, è davvero difficile da placare ed è proprio in questa forza primitiva che si compie l’atto letterario. La prosa sfacciata di Mattia, sempre impeccabile, anche negli squarci più espliciti, è in grado di far risaltare il lato peggiore della nostra umanità e lo fa con una disinvoltura priva di infrastrutture che rende il tutto ancor più potente, dando forma a una narrazione spigolosa che trae forza dal suo stesso malcontento e che, proprio affogando nel suo magma oscuro, raggiunge il picco di maggior splendore. Tocca fare un bel respiro e immergersi, lasciarsi trascinare nel punto più basso.
Tocca tornare di nuovo lì, al fulcro dei problemi. Alla famiglia e ai mostri che può generare.
Stefano Bonazzi
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Cieli in fiamme
Mattia Insolia
Mondadori
18,50 euro — 276 pagine