“Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima)” Poesie di Marthia Carrozzo in un dialogo/intervista al Maestro Claudio Fabi, prefazione di Lello Voce, Kurumuny ed. 2022, collana Camminamenti.
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Genesi e desiderio del tuo libro. Quando scrivi, godi?
La mia poesia, nella sua peculiarità, ha avuto sin da subito origine nella necessità di nominare le cose con esattezza, scegliendo di dire quel corpo in cui il mio respiro si inscrive, contenitore e contenuto da cui il mio fiato si parte, andando a restituirgli tutta la dignità erotica e dunque trasformativa che è degli incontri fondamentali, a partire da quello con se stessi. In tal senso, riportare il corpo al centro, proprio per quella volontà di bellezza che mai abbandona Idrusa, sin dalla penna di Maria Corti, è stata la scelta di chi non si esime dal prendere sulle proprie spalle, ma direi proprio nelle proprie mani lasciate libere, l’eredità tutta umana che è delle donne nell’accogliere e gestare in sé un desiderio molto più ampio, capace di richiamare l’attenzione sulla verità e sul nitore che sanno imporsi, abbacinando naturalmente, alla radice di ogni identità espressa appieno, per se stesse e per gli uomini che amano, con cui scelgono di procedere, insieme. Quando scrivo, perciò, credo che un principio di godimento non mi sia affatto estraneo, a pena di nullità dell’intera operazione, direi quasi alchemica, che per me si compie ogni volta, che mira a ripulire le parole, sgrossandole dal piombo in oro, andando a cesellare ogni sillaba perché sia capace di risuonare esattamente, nel mio corpo, nella mia voce e, da questa, oltre me, ad incontrare ogni vaso altro, pronto e partecipe, nell’ascolto di chi vorrà, altrettanto indifeso, assistere in maniera attiva ad una individuazione che non sarà più semplicemente la mia. Idrusa, del resto, si porta l’acqua nel nome, contagia del proprio coraggio e lava da ogni preconcetto legato a quell’idea di peccato da sempre prossima al desiderio, le retine e le coclee di chiunque vi si accosti. Che Idrusa ama senza tema – e se stessa per prima – tanto da scegliere di non bluffare, di lasciarsi guidare e trasmutare dal proprio anelito alla felicità; tanto da eleggere l’amore stesso a guida, rinominando il mondo ad ogni orgasmo.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché?
Il difficile è sceglierne un solo estratto, non perché sia stato particolarmente complesso scriverlo, anche grazie alla disponibilità del
Maestro Claudio Fabi che si è prestato con grande generosità alla mia intervista, ma proprio per l’importanza che l’intero terzo e ultimo numero di Camminamenti, progetto che ho immaginato e voluto fortemente perché rendesse manifesta la mia idea di poesia, ha per me. “Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima)” riprende, rielabora e completa un materiale testuale che era in parte stato pubblicato nel 2012 per la stessa casa editrice, nella “Trilogia di Idrusa”, portandola a compimento nelle ragioni stesse di questa Piccola collana di scritture in movimento che si congeda così da Kurumuny dopo aver condotto i lettori in un camminamento per tappe che ha visto il corpo farsi fulcro di una riflessione più ampia, svelato e rivelato attraverso la poesia erotica di Joumana Haddad, prima, di Jonida Prifti, poi e, in fine, attraverso la mia stessa poesia, proposto come lente imprescindibile sul mondo e su noi, di volta in volta, nell’accezione che i diversi co-autori hanno saputo aggiungere ai versi. Così, dopo Nabil Salameh (etnomusicologo), nel primo numero, e Donatella Della Ratta (sociologa), nel secondo, questo terzo volumetto ha avuto l’onore di mettere in dialogo la poesia della più che mai grata direttrice di collana con il Maestro Claudio Fabi (compositore e musicista, arrangiatore e produttore discografico), a ricondurre il corpo alla sua musicalità intrinseca, a quell’identità radicale, capace di risuonare e richiamare, di muovere prima e predisporre l’incontro trasformativo con l’altro.
In sintesi, potrei dirti che ci siamo interrogati sul modo in cui l’evidenza irrinunciabile del corpo potesse di fatto guidare il lavoro del compositore e del musicista, su quanto questo fosse analogo al modo in cui, nell’idea di Camminamenti, lo stesso corpo muove a condurre il lavoro del poeta. E importante è stata, dunque, la risposta del Maestro, quando ha affermato che “Il corpo è la dimostrazione di come un’opera musicale – parliamo di musica, in questo caso, ma credo, in realtà, che questo vada a riguardare quasi tutto – possa, riprendendo il titolo in inciso a questo nostro camminamento comune, muovere e commuovere, andando a toccare in chi la ascolti quelle corde più sottili, quelle delle emozioni, appunto, intangibili e interiori, non senza essere percepita proprio fisicamente, guidando perciò chi vi assista a una consapevolezza quasi tangibile e più certa, che lo attraversa e, presto o tardi, lo muta.
Quando un’opera, nel momento in cui la si stia ‘facendo’ – come nell’etimologia di poesia che indicavamo prima – nel momento in cui la si stia scrivendo, quando la si stia eseguendo e suonando; quando quelle note, già quattro o cinque, arrivano a toccare quel punto sublime in cui chi le esegue si rende conto di aver veramente raggiunto ciò che poteva raggiungere di compiuto, di perfetto dal punto di vista espressivo, nel suo poter essere comunicato, allora c’è una commozione, un muovere insieme: il corpo, anche il tuo che la dirige, reagisce con la sua stessa esistenza a ciò da cui è attraversato e, non meno importante, esiste e reagisce con gli altri corpi che incontra.”
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Potrà forse apparire scontato, il risponderti che sarebbe sicuramente musica, ma credo possa essere solo così. Credo sia stato così sin da subito, per me, e in questo poemetto anche di più. Non a caso, nel completamento scenico di questo terzo Camminamento, la mia poesia incontra la musica del Maestro Fabi; non a caso, il dialogo, che già avviene tra le pagine, tra la poetessa e il musicista, si compie, sul palco, in un concerto per pianoforte e poesia che va a proporre al pubblico, oltre ai set dell’intervista, del solo del Maestro al piano, quindi, del mio per voce sola, l’unico brano – il primo, dal nostro esserci incontrati, ma prevediamo, compatibilmente con gli impegni di entrambi, di scriverne ancora – che ci ha visto muovere l’uno verso l’altra a cercare un respiro comune, andando a comporre insieme le note e le parole della quarta stanza, “Impromptu (o dell’impronta che resta)”.
Che rapporto hai con la censura?
Faccio mio il coraggio di Idrusa, non smetto di credere, perciò, che la bellezza, quella autentica, non debba temere nulla. Parlo, chiaramente, di una bellezza spesso difficile persino da accettare, ma che, a ben guardare, fa rima con verità. Musica e poesia, del resto, ci invitano da sempre a riconoscere, portare fuori e manifestare con orgoglio la parte più vera di noi. È un invito che certamente ci chiama a sguarnire il costato, a mostrarci vulnerabili, ad accettare e ad accogliere le nostre fragilità; un invito che ci costringe a mettere in discussione un equilibrio ormai acquisito, forzandoci spalle al muro davanti all’ineluttabilità del nostro sentire, solo un attimo prima di quel passo successivo che saprà stupirci in tutta l’audacia che non ricordavamo di avere, nel baluginare di una consapevolezza improvvisamente più fiera, propria di chi si assume il rischio della muta tra le non poche ferite atte a far riemergere la parte più luminosa di noi. È questo, in fondo, ciò che ci rende umani.
Per un poeta, poi, credo sia un dovere ineludibile, ben oltre ogni più inutile acrobazia dell’ego, quello di non sottrarsi, di non smettere di spronare. Perciò, cerco intanto di non auto censurarmi, di evitare ogni menzogna, ogni autoinganno che non potrebbe che risultare sterile, oltre che dannoso.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Neppure la contestazione fine a se stessa mi interessa. “Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole.” scrive Roland Barthes nel suo “Frammenti di un discorso amoroso”. Allo stesso modo, la poesia ha per me, ancor più che la sola scrittura, un ruolo cardine nella comunicazione tra persone, allo stesso modo è un relè alla base della stessa idea di comunità, che non è solo la comunità geografica a cui ciascuno appartiene, ma allarga i suoi confini all’intera comunità umana. Così come la mia pelle è il primo medium di comunicazione tra me e il mondo, la poesia, che supera i confini della scrittura nel valore aggiunto che solo il corpo può esprimere, da ogni muscolo teso alle corde vocali pronte a vibrare al passaggio dell’aria, mi permette di sconfinare oltre i miei perimetri e toccare l’altro, dissolvendomi e, al contempo, moltiplicandomi in un noi. Perciò, se per mestiere intendiamo l’esercizio di quella funzione specifica al servizio degli altri che era, etimologicamente, quella del minister, allora sì, per me la poesia è un mestiere: il più bello fra tutti.