“Qualcosa resta” di Alessandro Mari (Feltrinelli, 2023 pp. 192 € 17.00) esce nelle librerie il 9 maggio. L’autore sorveglia la relazione disillusa di ogni possibilità nel tempo presente, elogia la cognizione terapeutica e miracolosa del senso della vita attraverso la presenza di un cane Lobo, nella suggestiva e simbolica capacità di presentire la morte. Il libro combina l’intensità degli elementi narrativi con l’analisi profonda delle vicissitudini umane, nell’intento sincero di delineare il significato dei sentimenti, intreccia la radice del coinvolgimento emotivo con il linguaggio dell’anima, guida le azioni e i comportamenti nella prospettiva delle evoluzioni interiori, svela l’intima natura del dolore, sostiene la resistenza del conforto, ricerca l’impercettibile coscienza dell’affetto e dell’appartenenza. Il protagonista Pedro asseconda l’attitudine originale del cane Lobo, nel convincimento fiducioso di riuscire ad arrestare l’inevitabile pena della fine e non far morire presto le persone care. Ma quando la sua compagna Ida, veterinaria, muore d’infarto, si colpevolizza per averle infranto drammaticamente la vita affettiva. Pedro aveva rivelato a Ida la sua sovrannaturale impressione nei confronti dei misteriosi presentimenti del cane Lobo, interpretandoli come indizi concreti della sua incredibile vocazione. La disperazione di Pedro si materializza nella responsabilità di non aver saputo decifrare i segni di qualcosa che sarebbe ineluttabilmente accaduto e di non aver avuto la capacità di salvare il suo amore. Il libro raccoglie la voce narrante del fratello di Ida, che incarna una sincera e autentica consapevolezza, scioglie il vincolo distruttivo del protagonista, dilata il tempo della comprensione, accompagna Pedro nella dimostrazione rivelata che il cane Lobo in realtà non è catturato dal sentore della morte, ma è rapito dalla consistenza della bontà, sentimento innato in alcune persone che trasmettono la migliore espressione della dedizione e traducono l’energia positiva dalla percezione di ogni generoso e amorevole sentore. “Qualcosa resta” trattiene tra le sue pagine la sensazione indispensabile del ricordo olfattivo, la traiettoria tangibile della comunicazione, mantiene l’informazione invisibile dei legami, intrattiene la complessità delle esperienze interiori, dimostra il riscontro dell’amore, nella sua universale verifica. La raffinata scrittura di Alessandro Mari conferma una compatta e suggestiva analisi tormentata della fragilità, nutre il desiderio umano di elevare la capacità di compassione e di empatia, di coltivare l’effetto immaginario delle nostre proiezioni emotive, di inseguire l’interpretazione di un incantevole universo apparentemente assurdo, influenzato dalla padronanza spontanea di un cane nell’individuare il bene, nel rifugio dell’anima. Alessandro Mari protegge il profumo della sua storia, emana l’efficace intensità provvidenziale nella sensibile attitudine di fantasticare, elabora la naturalezza del reale con l’inganno dell’illusorio. Costruisce una prolungata riflessione intorno al vincolo inesorabile tra le cose, la seducente e commovente correlazione tra le persone e gli eventi della vita. Osserva l’inclinazione dell’assenza, interroga il dolore, muta l’orientamento della solitudine, segue l’istinto struggente di assistere il cuore delle emozioni, di svelare una motivazione di conforto nel rintracciare attraverso le significative parole dei protagonisti, i dettagli della velata malinconia della maturità narrativa.
Rita Bompadre
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“Esistono centinaia di ricerche, roba scientifica, basta studiare. Ma quel che non ti dicono da nessuna parte è che ce l’ha anche la vita, un odore… un odore di buono. Ce l’ha l’amore che uno dimostra per le cose, per le idee, per gli altri. È questo l’odore più forte che lasciamo in giro, e forse si fa ancora più forte quando la fine si avvicina… Questo è l’odore che si può fiutare.
Quando una persona che ha amato per davvero muore, noi la immaginiamo in preda al terrore come chiunque altro, il terrore del nulla, lo stesso che aveva mia madre anche se credeva nel l’aldilà… Ma dopo quel terrore così comune, così nostro, io credo che per chi ha amato ci sia un’altra emozione, l’ultimissima emozione, proprio a un secondo dalla fine, l’emozione che dà il pensiero di aver forse combinato qualcosa di buono, ed è un’emozione che buttiamo fuori dalle ascelle, dai piedi, persino dal buco del culo: l’odore della vita che abbiamo lasciato addosso agli altri, al resto. L’odore della pienezza. L’odore di quello che, nel vuoto che ci minaccia ogni mattina come fosse l’ultimo giorno della nostra vita sulla terra, allarga un pieno.” “Vuoto, pieno,” ho ripetuto io quasi involontariamente, giusto per non tacere, ma Pedro si è allungato sul tavolo afferrandomi le spalle. “Esatto, hermano. Lobo è un segugio del pieno, perché chi vive per davvero come ha fatto Ida, che era così tanta e generosa, riempie il mondo col suo odore di buono… Non è un odore facile da riconoscere, soprattutto per il nostro naso di umani, noi non abbiamo l’olfatto sviluppato dei cani, quella comunione di cervello e narici: loro usano quaranta volte i neuroni che usiamo noi per processare un odore, e la nostra testa fatica ad ammettere l’esistenza di quelle secrezioni buone.
E si capisce. Il dolore, la sofferenza, la morte sono roba forte, tilasciano addosso un ricordo più intenso, e quell’intensità sembra racchiudere una qualche verità solo in ragione della sua forza… Per questo cercavo l’odore della morte. Mentre i gesti, le parole, persino i silenzi che danno pienezza alla vita, quelli sono meno sfacciati, uno ci fa l’abitudine, un po’ come ci si abitua al l’aspirapolvere, al l’acqua in doccia, al l’aspirina. Uno può arrivare a convincersi che la felicità sia una fottuta parentesi e che l’infelicità sia la normalità, la costante, la vita. Ma tu li hai mai guardati bene i turisti in giro per musei e piazze? Li hai mai guardati?” “Credo di sì,” ho risposto io buttando giù un altro bicchiere. “Ma adesso che cosa c’entrano i turisti?” “Vanno col telefono e le cartine in mano, si documentano, visitano questo, visitano quello, assaggiano questo, ammirano quello… Lascia perdere i turisti stronzi e volgari che ogni tanto si perdono qui da noi, quelli sono come il dolore, si ricordano più facilmente, tu pensa agli altri, quelli modesti, quelli che sono venuti a sapere di una qualche bellezza e stanno finalmente per godersela quasi avendone paura, e allora scattano fotografie, comprano souvenir, infilano tutto nello zaino, finiscono la memoria del telefono… Io li ammiro, in un certo senso. Se non fosse che quando tornano a casa poi svuotano lo zaino e lasciano i souvenir sulle mensole a prendere polvere, e le fotografie semmai le guardano una volta all’anno”.