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Lizzy Goodman anteprima. Meet me in the bathroom

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È dannatamente, indiscutibilmente vero. Quello che la giornalista musicale Lizzy Goodman ha composto con Meet me in the bathroom (pagg. 528, €25,00) è in tutto e per tutto una storia orale anzi: un vero e proprio poema corale di quella che è la rinascita del rock fra il 2000 e il 2011. E dove poteva accadere se non a New York, epicentro di ogni forma d’arte del contemporaneo? «Questa è una città rock» conferma James Habacker, ex proprietario di The slipper room, bar del Lower East Side, in un passaggio del libro.

Uscito per la prima volta nel 2017, Meet me in the bathroom da oggi è nelle librerie italiane grazie alla casa editrice bolognese Odoya e per la traduzione di Irene Micheli Amodeo.

A breve sarà seguito dall’uscita nelle sale del documentario omonimo, diretto da Will Lovelace e Dylan Southern.

Parliamo però del libro, che con le sue oltre cinquecento pagine e le duecento interviste condotte dalla Goodman su cento fra i protagonisti della scena musicale newyorkese di inizio XXI secolo, si presenta come un monstrum, un monolito. Ma è, come detto prima, anche un poema su quella che è stata la per ora ultima rinascita per il rock.

La Goodman, direttamente coinvolta negli eventi, costruisce la sua indagine come fosse un atto d’amore. Un The way we were della scena rock di inizi Duemila, di cui vuole riportare su pagina la fiamma, l’energia, non tanto l’aspetto sentimentale.

Così fa scorrere il nastro dei ricordi, ma frammentando le dichiarazioni dei testimoni di qualsiasi ordine e grado. Crea così un accumulo di affermazioni, di aneddoti veloci quanto puntuali su cosa siano stati quegli anni, quale fermento ci fosse nella metropoli nordamericana, come e cosa si muovesse fra i bar e i locali di Brooklyn, che si inseguono legandosi fra loro.

Dichiarazioni in presa diretta, a caldo, si direbbe. Anche se non tutto è gioco forza proprio così. Eppure funziona, ricostruisce perfettamente cosa è stato quel periodo, la sua anima, il desiderio da parte di musicisti, dj, produttori, promoter ecc., di essere protagonisti di quel momento della propria esistenza.

Questo accade proprio perché Goodman lavora su una miriade di spezzoni dichiarativi che, giustapposti fra loro sulla pagina, creano una fitta rete di rimandi. Detto altrimenti: si interconnettono dando luogo a qualcosa che è definibile come “flusso poematico”.

A ben vedere, non esiste un vero punto di inizio, poi un centro e una fine negli ottantasette capitoli di Meet me in the bathroom. Potremmo attaccare a leggere da uno qualsiasi di essi, senza mai perdere il filo del discorso.

Goodman ha perciò ragione quando afferma che scrivere questo libro sia stato per lei come giocare con un flipper (sempre che qualcuno ricordi cosa sia, un flipper).

È attraverso un simile, imponente lavoro di cut&paste che viene fuori la voce collettiva, “generazionale” del libro, capace di raccontare una verità non soggettiva. E al centro di questo poema sta New York.

Lei è il personaggio principale. Non The Strokes, The Yeah Yeah Yeahs, LCD Soundsystem, Interpol, Vampire Weekend, TV on The Radio (praticamente tutti i membri delle band sono presenti con ricordi e dichiarazioni in queste pagine) ovvero i pilastri della scena indie rock di inizio millennio, più i tanti altri gruppi seminali che Goodman intervista. Non i produttori, i giornalisti, i proprietari di bar o locali.

Loro sono gli attori, ma New York sta al centro di quanto hanno fatto.

È di lei che tutti gli intervistati parlano, spesso indirettamente, perché è dal cuore della Grande mela che le band hanno preso linfa – dai locali che frequentavano o dove lavoravano e si incrociavano – e fatto risorgere il gene del rock.

New York nel libro della Goodman, conferma di essere una città che si muove, si trasforma, per esempio spostando i suoi poli artistici da Manhattan a Brooklyn. Ma anche una città che si scrolla di dosso, reazione più che condivisibile, l’orrore prodotto dalla tragedia delle torri gemelle. È una città che a inizio secolo vuole rinascere. E lo fa. Attraverso nuovi locali, la potenza elettrica di nuove band, attraverso l’etichetta discografica DFA. Dalla morte sbuca la resurrezione o, parafrasando James Murphy: l’idea era ricreare New York per come doveva essere.

Di fatto «la fase post-9/11, a New York, aveva l’energia di chi pensava che sarebbe morto in ogni caso – prendendo la metro, aprendo la posta, camminando per strada» afferma Sarah Lewitinn Patterson, alias Ultragrrrl, blogger e dj.

Quindi, recuperando una modalità di ascendenza punk: meglio darsi da fare che stare ad aspettare.

Per chiudere parzialmente su Meet me in the bathroom (leggetelo, percorretelo trovando storie che nemmeno abbiamo sfiorato), un accenno al titolo.

Viene dall’omonimo secondo album degli Strokes, precisamente è il verso iconico di Reptilia, song in cui Casablancas e soci fanno riferimento al cervello rettiliano, depositario della memoria emozionale. Quella che Lizzy Goodman rimette in pista con questo suo grandioso poema su una scena musicale e su una città, entrambe meravigliose.

Sergio Rotino

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LA FINE DI UN’ERA E L’INIZIO DI UN’ALTRA

ALEX KAPRANOS: Il primo posto in cui abbiamo suonato a New York è stata quella stanza al Pianos nel Lower East Side. C’erano questi poster in tutto il locale che dicevano: “Non ballate, grazie”. Ci è sembrato così perverso… cioè abbiamo messo insieme la band perché volevamo far ballare la gente! Dopo ogni canzone ricordo che dicevo alla folla: «Non ballate, grazie».

TUNDE ADEBIMPE: Dovevi avere una licenza particolare per posti da cabaret per far ballare la gente.

DOMINIQUE KEEGAN: Al Plant Bar abbiamo commesso la nostra prima violazione alla fine del 2001.

TUNDE ADEBIMPE: Vedevi quei cartelli e sembrava uno scherzo, come se la Morte Nera o l’Impero ti stessero addosso. Non c’era modo che la gente obbedisse.

LUKE JENNER: Era una gran stronzata.

JAMES HABACKER: Ho deciso di proposito di non fare il poliziotto. Era una scelta. E ora mi veniva chiesto di controllare la gente nel mio locale? Non avevo intenzione di farlo.

DOMINIQUE KEEGAN: La regola era che non potevano ballare più di sei persone alla volta.

JAMES HABACKER: Negli anni Novanta, quando avevo il Plush, avevamo avuto un colpo di fortuna perché Giuliani aveva deciso proprio allora che avrebbe concesso quelle licenze solo in alcuni distretti piccoli, e il Meatpacking era tra questi. C’erano solo prostitute e carne in scatola, a loro non importava. Era stato facile: ero andato io stesso al Consumer Affairs e avevo compilato i documenti, ottenendo la licenza. Voglio dire, questo avveniva nei giorni in cui per avere un’autorizzazione da parte vigili del fuoco davamo alla gente mazzette in contanti. Queste cose non succedono più.

DOMINIQUE KEEGAN: Tutto nasceva da una legge del 1926.

JAMES HABACKER: In realtà è iniziato tutto con La Guardia. Prima che La Guardia fosse sindaco c’erano slot machine in tutti i negozi di caramelle. Era una città molto diversa. Lui ha tolto tutto, ha eliminato tutti i jukebox e ha stabilito queste “cabaret laws”: dovevi avere una licenza, sia per far ballare gli avventori che per la musica. Charlie Parker non poteva suonare a New York perché era un drogato: il Birdland prendeva il nome da lui, ma si rifiutarono di dargli la licenza di musicista e lui non poté suonare nel locale. Poi, negli anni Settanta, ci fu un gruppo che riuscì a far togliere quella parte dalle leggi sui locali, ma la regola sul ballare rimase.

NICK MARC: Era fondamentalmente una legge razzista, innanzitutto, perché era fatta apposta per far chiudere i jazz club di Harlem.

JAMES HABACKER: La legge era sempre stata presente, ma nessuno l’ha applicata finché Giuliani non è stato eletto. Giuliani proveniva dalla Commissione Knapp, era un procuratore federale. La Commissione Knapp aprì un’indagine sulla corruzione nel dipartimento di polizia di New York, e lui era uno dei pezzi grossi coinvolti nella faccenda: è lì che ha fatto carriera, con Serpico e Lindsay. In pratica era un vero gangster, e quando è diventato sindaco ha deciso che nessuno avrebbe preso un dollaro. Non potevi pagare il tizio dell’ascensore. Una volta riuscivi a fare qualsiasi cosa e la facevi in fretta, ma dopo Giuliani, improvvisamente, è diventata tutta una questione burocratica. Lo vedeva come un modo per fare un sacco di soldi. Le cose non erano diventate meno corrotte: è ancora una truffa, stai ancora dando loro tonnellate di soldi, ma riguarda la città.

TRICIA ROMANO: I pezzi grossi odiavano la vita notturna.

JAMES HABACKER: Il Plush era un covo di tossici: non ho mai spacciato droga, ma tutti si facevano di coca. Era un gran casino, ma era un casino divertente. E nessuno ci ha mai dato fastidio. Poi ho aperto lo Slipper Room, e lì i fastidi sono stati enormi: non siamo riusciti a ottenere una licenza. Era molto più difficile di quanto fosse nel 1994.

TRICIA ROMANO: Avevano proprio un ufficio in città deputato alla chiusura dei club.

JAMES HABACKER: Si vedeva passare la task force della vita notturna – poliziotti e vigili del fuoco avevano lì la commissione di controllo ambientale. E passavano a controllare il posto. Venivano sempre di venerdì o di sabato, ovviamente, e puntavano le torce in faccia a tutti.

DOMINIQUE KEEGAN: La prima volta che abbiamo ricevuto una multa stavo facendo il dj e passavo “Kiss” di Prince. Il tipo è entrato sotto copertura, ha ordinato una Coca Cola, e poi siamo dovuti andare in tribunale.

TRICIA ROMANO: Usavano queste leggi per chiudere i posti dove c’era un dj in un angolo, come il Plant Bar, i posti dove si andava a vedere James Murphy che metteva dischi o gente come lui. È questo che era veramente triste: era come piantare un paletto nel cuore di quel mondo.

LUKE JENNER: Andavo a lavorare al bar e trovavo un cazzo di lucchetto.

DOMINIQUE KEEGAN: Abbiamo provato a impedire alla gente di ballare. Abbiamo messo cartelli con scritto “No Dancing” e abbiamo fatto rispettare la regola, e gli affari hanno iniziato a soffrire davvero.

SIMON REYNOLDS: Pensavamo che fosse assurdo.

DOMINIQUE KEEGAN: Avevamo un piccolo interruttore blu all’ingresso del bar, e a tutti i dj veniva detto di mettere un disco dei Radiohead se quella luce si accendeva. L’idea era che, grazie all’effetto imbuto della gente, mettendo “Kid A” tutti iniziavano a spostarsi davanti al bar smettendo di ballare.

JAMES HABACKER: Era una cosa arbitraria e capricciosa, e se non stavi attento ti facevano chiudere.

DOMINIQUE KEEGAN: Luke mi ha chiamato una sera e mi ha detto: «Il locale è pieno di poliziotti. Stanno sigillando tutto. Faresti meglio a venire qui». Era una delle feste di compleanno di James. Tim faceva il dj e non era mai stato informato sulla regola della luce. Ero andato via dall’appartamento al piano di sopra, a quel punto, per la mia sanità mentale, ma sono saltato sulla mia moto e sono andato là: gli agenti stavano chiudendo il cancello, Luke era spaventato a morte. Ho chiamato il nostro avvocato, e dopo siamo stati aperti per un altro mese. Avrei dovuto finirla in grande stile, fino a quando non ci hanno fatto chiudere. Era come la fine di un’era. Ho dovuto mollare: era finita.

LUKE JENNER: Hanno costruito un bel grattacielo lì accanto. È questo che mi ha ucciso, riguardo al Plant Bar: hanno messo quel grattacielo di lusso proprio lì accanto. Ed è per questo che tutti si sono trasferiti a Williamsburg.

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