«Non so dove finisce/ la mia speranza./ Ha già toccato la musica/ ha quasi paura//del mio scattante presente puntuale quotidiano / dolore».
Silenzio, gelo, gli stracci di una luce perduta, graffiata dalla morte. Piera Oppezzo torna nelle librerie con Esercizi d’addio, raccolta pubblicata da Interno Poesia a cura dell’amico regista Luciano Martinengo a cui l’autrice aveva affidato i suoi inediti, dicendogli in una delle sue ultime visite all’ospedale « mi raccomando le mie cose».
La raccolta contiene le composizioni mai rese pubbliche, composte tra il 1952 e il 1965, che precedono la consacrazione della poetessa con la raccolta poetica d’esordio L’uomo qui presente, pubblicata da Einaudi nel 1966.
Nata nel 1934 a Torino da una famiglia povera e di umili origini, fin da piccola coltivò, nonostante la mancata comprensione da parte dei genitori, la sua passione per la poesia, divorando libri di autrici che spaziano da Emily Dickinson a Marina Cvetaeva. In una poesia parlò della « infanzia saccheggiata dalla famiglia » a cui tuttavia sopravvisse grazie al suo fuoco per l’atto poetico. In Rai, dove fu pubblicata appena ventenne nella rivista aziendale, entrò in contatto con gli intellettuali e artisti dell’avanguardia torinese da cui fu subito apprezzata. È dopo la pubblicazione de L’uomo qui presente che si trasferì a Milano, continuando a venire pubblicata su varie riviste nazionali e a camminare nel suo nulla interiore, nella sua non-felicità, morendo poi nel 2009 in una clinica sul Lago Maggiore.
«Nella vita, o si vive o si scrive » è la frase che contiene tutta la sua esistenza che diventò una cosa sola con l’arte dello scrivere o meglio del tradurre i movimenti della sua anima in musica. Un’anima gelata, che percepisce attorno a sé la nebbia, il silenzio, la distanza dal resto del mondo, che non la comprende, che la lascia sbriciolarsi nella sua solitudine, nella sua malinconia, nella sua attesa di un sussurro, di una collana di parole d’amore.
Si crea così nella raccolta un gioco di incomunicabilità, di sguardi mancati e di urla inascoltate che raccontano il senso profondo della morte e una necessità dolorosa di occhi, di labbra, di vita.
Tra le pagine, la poetessa danza sul silenzio per ritrovare gli attimi di felicità che l’hanno resa umana, che le hanno affidato uno sguardo di meraviglia nei confronti del mondo, nonostante la sua sofferenza, il suo corpo mutilato da una gelida lama interiore che la taglia fino a consumarne l’anima e la voce in stanze di sole pareti nude, ma con piccole finestre verso la luce, verso un’uscita dal suo inferno privo di fuoco, e, in ultimo, verso una disperata, ma costante e musicale, ricerca di pace.