Potrebbe tornare alla mente quel mare di verghiana memoria a voler affacciarsi sul balcone della stanza del Boni qui presente. Un orizzonte cobalto, orfano di paese, che si fa patrimonio e rifugio per viandanti con l’occhio accorto e l’orecchio disposto all’ascolto.
Orfano di patria ci appare anche il nostro protagonista, tale Gregorio Boni appunto, la cui inspiegabile decisione di lasciar dimora e parenti ce lo fa somigliare in qualche modo a un altro errante di cinematografica memoria. Penso a Viktor Navorski “The Terminal man” l’uomo che, a causa di un colpo di stato avvenuto nel suo paese, decise di trascorrere il resto della sua vita nel nonluogo per eccellenza.
Sempre di scelte che cambiano un’esistenza stiamo a parlare dunque, sempre di nonluoghi e apnee sospese, in questo caso tra le camere di hotel, al bivio tra mare e terra, in una Viareggio che di cartolina per turisti conserva solo la veste estiva.
Quando veniamo accolti nella sua stanza vista riviera il Boni ha già deciso. Saldato il conto del pregresso e smaltite le formalità per la sua nuova residenza, al nostro non resta che il tempo della riflessione. Si dia quindi inizio allo scavo nella psiche, senza farsi ingannare da codesta solitudine che è tale solo in apparenza: l’albergo in quanto dogana di vite si conferma nucleo di storie che attendono solo di quell’occhio accorto e quell’orecchio disposto all’ascolto citato in apertura.
Non siamo quindi al cospetto di un inquieto Pessoa, semmai un Jep Gambardella (seppur caratterialmente distante) in contemplazione accorta sul litorale di una Grande bellezza, palcoscenico di dialogo corale in cui le amarezze si stingono al vaglio dei propri errori.
«Nessuno forse dovrebbe rimanere troppo a lungo solo», pensa l’uomo mentre le sue giornate si adagiano su una sequenza di piccoli riscatti del cuore (una passeggiata sul lungomare, un piatto di pesce nel ristorante della zona, un libro concluso alla luce di un tramonto) e le piacevoli incursioni di Valerio Pepe, proprietario dello stabile, con il quale una volta alla settimana si compie il metaforico rituale di una sfida a backgammon ed è in questo assistere “alle piccole cose” che avviene il momento letterario.
Si nutre una voglia autentica di sedersi ai divani di quella reception, un po’ in disparte, per non disturbare una performance che si compie nell’eleganza dei particolari, nel gioco/rispetto dei silenzi. C’è un moto di quieto appagamento che accompagna questo bisogno costante del nostro di alzar la mano offesa a tener distante un prima che le cui schegge sono ancora ficcate nella carne.
In quel suo “preferirei di no” nel richiamo all’azione non fatichiamo a riconoscere la naturale insicurezza dello stare al mondo ed in quella silente malinconia di un esilio ponderato che Martini compie il prodigio di rivelarci una presa di posizione necessaria, le cui ragioni ci verranno svelate piano, come un’immagine che riaffiora nella marea mattutina di una spiaggia deserta. Martini ha il pregio di saper accoglierci tra le parole. Le strutture sintattiche volano leggere, mai pretenziose, col piglio di chi sa scrivere interiorizzando la sofferenza del gesto e lasciando a noi solo il godimento del testo che, se non fosse scrittura “potrebbe essere un tango, una milonga forse”, cita l’autore stesso.
Ben venga dunque la musica a riempire i corridoi, se le sue note hanno codesta eleganza, se il respiro può caricarsi di tale ossigeno e la cura rivelarsi, nel quieto accettarsi.
Stefano Bonazzi
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Il mare delle illusioni
Sebastiano Martini
Arkadia
13,00 euro — 104 pagine