“Ieri ho disperso in mare le tue ceneri. Ma questo lo sai già, dato che eri lì con me.
L’ho capito solo dopo che te ne sei andato, che eri tu”
Il romanzo di Eugenio Annicchiarico inizia così, con un quasi enigma da risolvere.
Ho letto queste due righe più volte, cercando di coglierne il senso quanto meglio potessi, non conoscendo ancora nulla della storia. È un mio vezzo voler capire subito con chi
e cosa ho a che fare. Risultato: bocca aperta, sguardo inebetito e speranzoso.
Di imbattermi in un libro diverso dal solito. E non solo questo, si dimostrerà.
Annicchiarico è un manager pubblico e ricopre un ruolo importante per la regione Sardegna, ma come tanti s’è invaghito della scrittura, forse per quella fame d’orizzonte tipica di chi ama questo stupendo modo di comunicare. Ha un passato da giallista, dal quale, evidentemente, almeno stavolta si è voluto svincolare.
Che romanzo è Falso ricordo? Un’opera più difficile da descrivere che da vivere.
Si regge su due colonne portanti: l’amore e il tempo. All’interno di questo scenario i personaggi mostrano le proprie anime, che diventano le reali protagoniste.
Il fascino per il concetto del tempo da parte dell’autore è palese, come forse lo è il suo bisogno al ritorno verso un’idea d’amore oramai smarrito, più profondo e straziante.
Il testo è ricco di spunti filosofici. Leggendo, ho avuto flashback liceali di Kant e Nietzsche.
Il tempo inteso come parte plasmante della nostra interiorità e non come un fattore a se stante. Il suo andamento circolare, piuttosto che retto. Noi siamo il tempo che viviamo, in un limbo incastrato tra ricordi che si aggrappano e speranze che si allontanano.
L’evoluzione della storia viene esposta proprio così: un continuo viavai di sbalzi temporali, veri e propri salti nel vuoto, sia tra un racconto ed un altro, che all’interno del racconto stesso.
Le vicende di tre generazioni di una famiglia vanno così a compire la storia nella sua interezza, dando la sensazione al lettore di stare osservando un mosaico in movimento, che si fa nitido mano a mano, in modo irregolare. A macchia di leopardo.
A fine lavoro, quando ogni tassello è nella posizione dove dovrebbe stare, tutto acquista un senso compiuto. Un misto di magia e verosimiglianza. Un sogno in carne ed ossa.
Doloroso, come spesso lo è la vita. Ineluttabile, come quasi sempre è il destino.
Leggendo, si avverte una sorta di smarrimento nostalgico. È come restare sospesi su un punto presente, con l’autore che si diverte a strattonarti da una parte all’altra fingendo di farti cadere, per poi riprenderti all’ultimo secondo e riposizionarti nell’equilibrio sospeso di prima, ma spostato in un altro luogo e in un altro tempo.
I protagonisti, descritti in modo egregio nella loro complessità, vivono in uno struggimento costante, che trasmettono al lettore, il quale è portato a commuoversi con estrema naturalezza.
Enrico, scrittore di talento e il suo bisogno irrisolto di comprensione.
Sua figlia Claudia, donna e madre apparentemente algida e le sue ferite mai rimarginate.
Giulia, figlia di Claudia, attrice mirabile e la sua sensibilità fuori controllo.
Tutti i personaggi, questi descritti ed anche altri secondari, mostrano i segni dell’esistenza e quelli del loro disperato bisogno d’amore. Un amore spesso celato, silenzioso, pudico.
Talmente forte e orgoglioso da renderlo invisibile alla persona amata.
Le dinamiche familiari vengono sviscerate con una profondità magistrale da Annicchiarico.
In modo elegante e mai pomposo, delicato e mai urlato, egli affronta molti punti dolenti.
I deficit di comprensione reciproca nella convivenza, il bisogno di una realizzazione personale a discapito dell’unione, il desiderio di libertà, la paura di perdere tutto.
Nel suo rimuginio quasi incessante di emozioni e riflessioni, l’autore scava nell’intimità e costringe il lettore a provare costantemente qualcosa. Così ci si ritrova a empatizzare con il personaggio di turno e nel contempo a rovistare nello scrigno dei nostri sentimenti più profondi. E anche a porci domande su chi siamo e sul perché lo siamo diventati.
“Oh, è pur sempre solo una tazza per il caffè -si schernì il fornaio- ma non era così bella prima che si rompesse. E sono proprio le sue ferite, le sue imperfezioni, ad averla resa più bella, non trova? Prima era una tazza qualsiasi, adesso ha una storia da raccontare. La sua storia, ed è ciò che la rende unica”
Di nuovo, tanta filosofia. Ma descritta dall’autore in modo fruibile, alla portata di tutti.
La forza della speranza che, nonostante le perdite, il dolore, le inevitabili ferite, qualche rimpianto, tutto sia in trasformazione verso un chè di diverso, per cui val la pena vivere. Rinvigoriti dall’inevitabile certezza che chi abbiamo amato resterà sempre con noi, qualsiasi cosa accada.
Come un arto mancante. Come un tatuaggio invisibile. Come un falso ricordo.
In conclusione, il mio giudizio su Falso ricordo è molto positivo. C’è un fottutissimo bisogno di questo tipo di opere, che hanno il potere di rinfrescarci la memoria.
In un’epoca dove evadere è diventata quasi l’unica attività ricreativa, è importante tenere allenata la mente alla profondità di pensiero.
Annicchiarico dimostra doti di introspezione notevoli ed ha la grande abilità di semplificare, grazie ad una scrittura snella e funzionale, temi per nulla banali e di superare lo scoglio della difficoltà di narrazione, causato dai continui sbalzi temporali.
Un libro che non so se si possa definire per tutti, ma che tutti dovrebbero leggere.
Perché a tutti fa del bene.
Quello che vorrei per lui è che invece fosse capace di conservare quel ricordo sempre.
Che riuscisse ad avere quello sguardo in ogni momento della sua vita.
Fare un dispetto al tempo. Non è forse quello che vogliamo tutti?
Paolo Raimondi