Cazzo mai letto una poetessa contemporanea con questa forza, con le sue solitudini ammarrate sulla terra, un lembo di vita che strappa con i denti l’esistenza dei turisti che incontriamo tutti i giorni tic tac tic tac… uomini e donne che hanno dimenticato cosa significa essere (umani).
Queste poesie sono una partitura d’inchiostro: c’è una musica che dietro la ricerca di se stessi ci fa comprendere come la solitudine si nasconda dietro chi per difesa deve mostrarsi sempre contento.
Dietro l’apparente dolcezza – che pur abbraccia ogni pagina- ci ritroviamo come la poetessa (in)difesa.
Raramente sono entusiasta di rime baciate: mi mandano poesie poeti e poetesse che chiamo “merinos”, emuli sfiancati da Alda Merini: poetessa da Mulino Bianco dell’ infelicita’, una aforista da baci perugina, tranne la Merini della metà anni ‘50 quando era innamorata di Giorgio Manganelli.
“Non era mia intenzione” di Francesca Maria Federici (edizioni en_ensemble) è un capolavoro. Lèggetela perché finalmente sono (contro)versi, sono poesie che sfiorano le labbra del pensiero, che rispecchiano una generazione senza essere generazionale.
“Non era mia intenzione” dimostra cosa sia davvero la poesia: non essere fermi alla siepe di Leopardi – tipo i versi con la rima- ma essere colpevoli di tutto. “Non contare le ere geologiche/ ma gli anni” perché “se ora tagliassi in due/il mio corpo e ci guardassi dentro/ mi troveresti/ sepolta”.
È il senso di colpa che chi non ha veramente colpa dovrebbe provare.
“Le stanze parlano” perché quando andiamo in giro guardiamo i palazzi ma mai pensiamo all’energia che a un palazzo da chi lo abita, tutte le cose hanno una vita, i libri, le scale, i marciapiedi, gli orologi sempre troppo al led per contare davvero il tempo.
“Essere me stessa/ con moderazione”.
Basterebbero questi due versi per comprendere la forza, lo sguardo oltre il cielo di carta. Poi i versi successivi “non avere più voglia di sapere/ e iniziare a sentire”.
Ed è esattamente quello che succede quando usciamo da queste pagine che chiudiamo per poi riaprirle: perché sono versi che ti portano dove si smette di vedere, si smette di pensare, si smette di ascoltare e finalmente si inizia a sentire: “come un pugno aperto da carezze leggere”,
Ci sarebbero da citare decine di versi ma se vorrete lascio a Voi la scoperta. Un libro da leggere, comprare, rubare, regalare, moltiplicare.
Non conosco l’autrice – l’ho vista una volta e mi basta perché preferisco la sua voce di inchiostro al suo porre davanti al proprio io una maschera di forzata felicità.
Chi come me è sensibile alle foglie capisce, oltre le apparenze.
Nei versi – come nel caso di tutti i grandi autori- si trova l’essenza dell’apparenza. Si trova un’eco che rimbomba dentro di noi, sentiamo la felicità che si sgretola, che è diventa come unghie laccate di rosso che graffiano il vetro ma toccano il cielo.
Dentro queste pagine trovate il cielo.
Certo ci sarebbe voluto un editor che ottimizzasse la riuscita di certe poesie: troppo spesso più che in atto è in potenza.
Ci vorrebbe poco ma sono pronto a scommettere che l’autrice lascerà il doppio nome per trovarne uno che sentirete spesso se comprenderà.
Come potenzialità siamo a livello delle poesie di Michel Houellebecq senza quella maschera di cinismo che anche lui mostra sino a diventare una caricatura.
In questi versi troviamo la vita che non è una copertina, ma ci racconta cosa significa essere talmente schiavi del proprio talento da aver paura di farne uso.
Perché si sente la forza di chi è prigioniero della propria trasparenza.