Pubblichiamo un nuovo racconto inedito tratto da Cohorte decima 8919 – Il dolore rimandato opera di fantasia realizzata dallo scrittore Comandante Phoenix.
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I frattali sono figure la cui struttura è invariante al variare della scala. Così, se si ingrandisce una porzione di un frattale, si troverà una struttura che si ripete in continuazione, sempre più piccola … fino a raggiungere l’infinito.
– Sai cos’è questa? –
– Come no .. e so pure dove vorrei infilartela … –
– Risposta sbagliata. Ma so essere buono e premuroso. Questa è bibbia. Proviene direttamente da Dio. Ecco, questa è la parola dell’Onnipotente nostro Signore. –
Faceva fatica a crepare. Aveva ingoiato tanto di quel sangue, da riempire quattro volte bronchi e cervello. Il naso era andato. Rotto in più pezzi. La piramide nasale frantumata e il sangue alla cerca famelica della cartilagine. L’aria che riusciva a succhiare, e a ficcare poi in gola, sapeva di orrendamente marcio. Avrebbe voluto prendere un bel respiro, uno di quelli ovvi, che non ci fai più caso. E cacciarselo, lento, in fondo al palato. Le costole, però, tutte o quasi, erano in frantumi. Dilaniate, terribilmente acuminate. Per i forti colpi, gli alveoli, ripieni di liquido, incominciavano a collassare su se stessi, impedendo ai polmoni di fare il proprio lavoro. Un’ombra bluastra sul petto non gli diceva nulla di buono. Sarebbe bastato un niente: un respiro più profondo, un pezzetto di carne in trachea, un lieve incrinarsi, un maledetto molare … e si sarebbe fottuto da sé.
Era “sotto” da un’ora. E ancora non si decideva a crepare. Era un duro. Uno di quelli d’un pezzo, una di quelle ciache di fiume. Cristiani d’uomini che neppure alla morte concedono, in punto di fine, privilegi e favori.
Tutti insieme, noi della Decima, cominciammo a fotterlo a mani nude. Una decina di affondi. Colpi secchi. Precisi. Con ritmo e cadenza. Sinistro destro sinistro, al volto. Tra zigomi e mento. L’osso malare esposto. Sanguinamento, più edema e dilaganti ecchimosi: la grammatica del dolore. Quello intenso. Che ti strappa l’anima a morsi. Le pause non andavano oltre i trenta secondi. Il tempo di rilassare bicipiti e nervi e di “correggere” le sbucciature alle nocche. Unte le ferite alle mani, noi e i due russi procedemmo con l’altro lato della faccia. Le secchiate d’acqua gelida, dopo le pause, impedirono allo sbirro la “resa elettrica”. Tutto quel ben di Dio ricordava l’”abbondanza” al macello. I vitelli scannati con un colpo di mazza o, quando più pietosamente, sparati con un tiro in testa.
“Blyat’, trudno umeret’.”.
“Moy “brat”: takikh zhivotnykh bol’she ne delayut!”
Conoscevo il Commissario, da quanti anni? Venti, trenta? Da secoli, ormai. Avrebbe dovuto saldare uno o due debiti, ancora. Stava “sotto” a quel martellare violento da quasi sessanta minuti. Eppure, ostentando la vita, si ostinava ancora a credersi vivo. Tra palle e cervello, c’era ancora quella particolare connessione. “Letalmente” vivo, come fosse attaccato al seno di una quelle baldracche che battono il porto. Era totalmente rotto, spezzato. Piegato in due, ma con la mente ancora in tiro. Tutto indicava che si era in riserva. Pronti al fine corsa. Era quel suo solito modo di rompere i coglioni … e proprio lì, in quel momento, andava scassando la minchia. Si, rompeva il cazzo perfino alla morte.
“A chi lo hai passato? Ci basta un nome, cazzone … Forza, sbirro e salvi la tua vita di merda …”
Forse era già crepato. A malapena teneva la schiena diritta. Non sentiva più i cazzotti in faccia, come quel genere di vociare in vena che narra, più o meno, tutte le stronzate e i debiti di una vita. Ad ogni respiro saranno stati come coltelli. Più efficaci di quelle “nostre cattive intenzioni”. Quello che andava ingoiando, in quegli ultimi istanti, e doveva andargli bene se evitava frantumi di molari, erano sangue e pezzetti di palato. La sensazione del sangue. La separazione da una parte di sé, ma che accadeva dentro di sé.
Le pareti di quel buco di una stanza, al piano cantinato di quell’intima guesthouse in uso al COS, gli vorticavano intorno e ad una simile velocità da impedirgli di prendere quelle maledette distanze fra il suo culo e quel cinematografico orrore. I suoi rilasci, ormai freddi, producevano quel “torbido acido” da fottere chiunque se là vi fosse entrato senza la briga di tapparsi il naso.
“Che schifo!!”
“Brat: smert’yu vonyayet …”
Era schifo. E non in senso lato. Pesante. Di sangue. E di nero. Aveva preso a pisciarsi addosso al centesimo cazzotto. Il centesimo in pieno, in bocca. Indegno. Come il primo finocchio a cui si spacca il culo, per gioco e perché farlo “fa tosto”. Era schifo. Come le infami suppliche dei froci ispano in ginocchio, come il suo desiderio di schiodare all’istante. Forse, non era abituato a morire, a crepare in quel modo. A mollo nel suo piscio, affogato nella sua merda. E Gesù Cristo avrebbe dato chissà cosa per farlo morire in uno di quei qualsiasi modi cristiani. Si, crepare a verso. Ma se ne andava come la peggiore delle cagne, forse come una di quelle troie fatte di eroina e di sperma. Col fegato spappolato e quel posto malamente, ma tecnicamente sfondato. I tagli più profondi correvano tra inguine e petto, imbrattando l’epidermide dell’anima. Non aveva più bocca e una delle pupille galleggiava sul più nauseabondo dei rilasci. Uno di quei lavori che lèvati. E per cosa? Per chissà quali cazzo di memorie … Cristo, crepava per quelle? E rideva. A ganasce piene. E mentre rideva, contava. Contava? Lo credereste possibile? Sì, potreste giocarvi i vostri sacrosanti, ma contava. Uno, due, tre … Contava e rideva. Forse, era il suo ultimo strampalato convincimento, ma se doveva crepare, dall’onnipotente Dio avrebbe voluto presentarsi con uno di quegli stronzi, isterici sorrisi stampati in faccia. Sì, uno di quelli per cui in quasi quarant’anni di carriera stava storto a tutti i colleghi in sezione. Uno di quelli che mandava in bestia chiunque fosse stato lì a tiro. E non era solo il suo fottuto modo di prenderla alla larga, ma le stronzate che riusciva a sparare quando rideva non avevano pari al mondo. E rideva, infischiandosene del sangue colante dalla bocca e del dolore che concimava altro dolore.
“Uno, due, tre … in fondo cos’è morire … “.
Quando riemerse dallo schifo intorno, montò uno di quei ragionamenti che chissà come avrebbero valutato gli strizza in caserma.
“Cos’è crepare, in fondo? E’ andarsene come si è stati sputati in culo al mondo: all’istante o con quella sacra e dannata croce che ti sei portato addosso. Si va via al momento occhei, con tutti i tuoi millimetri di pelle, dentro a quella o a quell’altra circostanza. E comunque, cazzo, la fine è la somma del punteggio ottenuto in corsa: hai prodotto tanto? E tanto ottieni alla fine. Hai vissuto così? E così te ne vai … All’istante, sottraendo ragioni al caso o se in ritardo, sommando sconvenienti motivi alle inaspettate evenienze del cazzo”.
Sorrise. Respirò a fondo. Poi, come a voler esaltare una convinzione …
“E per venire via passeranno almeno due o tre giorni. Dagli intestini al culo … questo è il tempo per buttarlo fuori. Quel fottuto di un … Ma se mi accoppate … e col cazzo che avrete indietro il vostro cazzo di un premio … ”
E rideva, eccome se rideva. Lo conoscevo bene: pensava che se avesse avuto a disposizione il suo vecchio taccuino, avrebbe potuto annotare in diretta quell’ultimo sballato di un ragionamento.
Proprio in quel momento i suoi occhi, dapprima furono dentro i miei e subito dopo penetrarono lo sguardo di Massimo …
“Bravo. Vuoi fare il duro, stronzo? E noi siamo più che cortesi. Il saldatore, ora!!”
Negli ultimi trent’anni avevo incrociato più inferni e miserabile umanità. Avevo regolato, e in mille modi diversi, la morte per un maledetto credo. Ero parte di un limbo impenetrabile e feroce. Custodivo l’”esperienza” e i segreti di un di un “apparato parallelo”. Vivevo esistenze doppie, manipolando verità e menzogne. Vivevo l’”infinitamente frammentato”. Soprattutto, avevo addestrato la coscienza a non interferire.
Lo sguardo di Vinci mi prese alla sprovvista. In quegli occhi tutto il dolore che un uomo può raccontare alla pietà.
“Centotredici, buongiorno. Dica?”
“Buongiorno, scusi … è la polizia?”
“Si, signore … ha chiamato lei. Dica.”
“Niente … volevo solo sapere se ufologia è aperta anche oggi …”
“Prego?”
“Si … ufologia, al Civico!”
“Signore … urologia, forse …”
“Bravo … volevo sapere se ricevono anche oggi … “
“Signore: questa è la polizia!”
“Si, lo so … l’ho chiamata io, che crede …”
Un close up, dal suo solito posto.
Uno di quei pomeriggi che se non erano la noia o quel grigio a massacrare i cosiddetti, era lo starsene ficcati in campana. Magari a raccontare ai vecchi ricordi che c’è ancora tempo per imparane di nuovi. Una di quelle giornate che tracimava veleno dalla bocca e che se girava più a lungo del solito c’avrebbe preso una signora cancrena allo stomaco. Proprio una di quelle. E manco farlo apposta, lui, il mio sbirro, stazionava in quella maledetta linea di tiro. E non ci sarebbero stati santi, né cazzi, né stronzi … pure fosse stato uno di quei mafia bastardi in gessato su e giù per le strade al rione. Replicava lento. Turno 14-20. Che il mare era una tavola fottuta. Salmastro e petrolio. Lento … che le barche non producevano un cazzo di nodo e che i pesci dal fondo sembrava lo stessero prendendo per il culo. Uno di quei giorni che avrebbe mandato tutto a puttane se non gli fosse venuta un’idea, una di quelle che muove almeno di uno schizzo la vita. Già, la vita. Inchiodata, invece, al palo e nei suoi tre quarti di storia già compiuta. Almeno un frammento di idea. Un motivo, un accenno. Ma non girava per nessuno, in quei giorni. Tutto segnava muto. Lento. Strisciante. Paralitico, peggio: annacquato … che dai vetri delle peggio macellerie, a colare non era sangue di capra, ma bonaccia di taglio e noia di tacco.
La vita, in quei giorni … con quel darsi da fare con la morte.
Ricordo, due stanze in là col collega a preparare le “matrici” per il Prefetto, gli veniva di prendere a cazzotti tutte le robe che si trascinavano malamente di fianco: la speranza e il futuro, su tutto. Meglio non avrebbe voluto e di meglio non ci sarebbe stato nulla da fare. Ma più si teneva alla larga e più quella gli veniva dietro. La vita … con quel darsi da fare con la morte.
Solo dieci passi, tra lui e l’inferno. Sarebbe stato più igienico girare i tacchi e farne altri cento per tornare di filato alle proprie emerite, impareggiabili cerimonie del cazzo.
Sebastiano Vinci. Lo sbirro.
Trent’anni e passa di servizio, fatti di giorni, goccia dopo goccia, e di notte, schifo dopo schifo, dalla catturandi, ma quella vera, quella degli anni ’70, all’archivio “P”: pregiudicati. Dalla Omicidi ai turni in Amministrativa. Passaporti.
Andava lento. Una di quelle estati. In questura.
Terzo piano, area due, sezione quarta, stanza 44. Girando a destra, dopo l’ultima decrepita rampa.
Bastià Vinci virgola e punto: la “guardia” per tutti i colleghi in Questura.
“Avanti il prossimo.”
“Buongiorno, posso?”
“E forse qualcuno glielo impedisce? Forza, avanti!”
“Mi scusi, credevo che … “
“Iniziamo proprio bene, forza signore: favorisca i documenti!”
“No … sa … credevo che … “
“Insomma: vuole entrare o no? E’ il suo turno? Allora entri, “s’accomoda” e dica.” “Si, si … volevo chiedere se era pronto il … il passaporto.”
“Ettipareva, un altro che desidera levarsi dai …. Come si chiama? Solo per sapere se è in lista.”
“Veda che posso tornare un altro giorno, se crede … “
“Io non credo a un bel niente. Faccio il mio dovere. E, qui in servizio, ho una sola fede. “Si metti” seduto e mi dia un documento di riconoscimento.”
“Si, prego.”
“Era ora… “
“Appunto.”
“APPUNTO!!!”
La folla. Il pubblico. Il solito casino. Schifo totale. Il bordello dei giorni di ricevimento. Tra incazzati e invisibili. A turno. In fila. Defilati e meno che mai coperti. Le solite domande. Le consuete stronzate. Didascalie dell’abitudine. La medesima, ineccepibile giornata di totalmente schifo. E se beccava pure lo stronzo, era fatta. Uno dei soliti giorni dispari da mandare a puttane. Etilismo burocratico, ma era il suo lavoro. Infame e malpagato, ma che gli permetteva d’arrivare alla retorica del traguardo. Alla fine del mese, il finemese alla terza settimana. Con le palle fumanti. Col culo fuori dalla merda e con quei pochi spiccioli per onorare le solite, crudeli scadenze. Nessuna poesia. Magari ci stava un “finalmente … aria!” e “fanculo a tutti i froci del sindacato.”. Ma sì, se riusciva a farla franca, al fine mese stampava un bel: “ma che andassero a prenderlo in quel posto ‘sti stronzi finocchi!” E marcava brutto, se il fumo schizzava dalle palle. Inchiodava duro collo stronzo che gli faceva girare gli attributi, ma nel cuore di Vinci, tra placca e 9×21, c’era l’incrollabile fede. Quella Fede …
E come negli occhi di oggi, tutta la storia di una tradizione.
“E’ un rinnovo?”
“Se sono qui, mi pare che sia per il rinnovo, o no?”
“Se le sembra così chiaro vuoi metterti al mio posto?”
“Ma le pare. Dicevo così, solo per socializzare … “
“E le sembra che questo sia il posto più indicato? Dico, ma lei sa dove si trova?” O hai scambiato la Questura per il Centro Assistenza Sociale?”
“Non mi sembra d’aver offeso nessuno e tanto meno lei … “
Il pretesto.
“Gentile signore chiariamo la cosa: lei ha il diritto di chiedere e io il dovere di darle una risposta, ma qui a nessuno è concesso offendere e TANTO MENO tentare di far perdere tempo al qui presente Commissario al servizio del pubblico!”
“Lei è molto zelante e io solo un po’ scrupoloso. Tutto ciò la disturba?”
Inaspettata fortuna.
“Ok. Dico, occhei. Avanti il prossimo. Gentile signore: tu hai perso il treno … “
Il riscatto, l’onere della scelta.
Sulla sua scrivania, fra timbri e traiettorie di protocolli, sconfinava il suo regno. Su quel ripiano, il suo “evangelico inferno”. Il suo tempo quotidiano. Un tempo fatto di giorni, di ore e di santi minuti secondi. L’ultimo anno. Si, avrebbe dovuto essere il suo ultimo anno in servizio, dopo la proroga e i giorni degli arresti eccellenti. Ordinanze, decreti e fax. Fascicoli in evidenza, alla firma e agli atti. Pratiche: verosimilmente cittadini, fatti di anagrafe e carne. E feroci attese. Dalla mattina alla sera, col catarro o con lo stomaco a pezzi … sempre. Dalla fottuta alba alle otto di sera. Senza steccare un giorno. Meglio di quanto si possa fare in quasi quarant’anni di onesto matrimonio. Dal giorno della promessa in chiesa, alla prima delle bestemmie … la prima dopo aver capito che tutta la faccenda gira dai titoli di testa ad un più che ovvio, macerato finale.
Da “secoli”, ma sempre, in ordine. Puntuale, al suo posto. Docciato e sbarbato. Per due soldi di straordinario o per quella infame gratifica sotto il Santo Natale. E magari ci beccava un biasimo scritto per una di quelle solite minchiate. O una censura per avere coperto il cazzone di turno. Ma sempre, da quasi quarant’anni: dal fottuto “maschio, espresso bollente” all’alba, alle otto della stronza di una sera. Per il medesimo stipendio e la stessa bandiera. A rodersi per il lecchino impotente o il sega in carriera, per lo sbirro venduto o per il frocio a cui tutto è dovuto. “Si, dovuto un paio di palle!”. A massacrarsi il fegato per avere segato tre volte il concorso o per il bastardo collega, là a tentare di fotterlo alle spalle. E per un centesimo di straordinario in più. In quello sguardo, quarant’anni di fede e di onore. Tra una porta che non s’apre manco a morire e un’altra, l’ennesima, sbattuta in faccia. “Sbaaam!!” Per quasi quarant’anni che non fotte a nessuno se vivi o schiatti, se respiri o tua moglie ti manda cornuto in malora.
L’Amministrazione. Lo Stato.
Quello era il suo regno, quello del patteggiare sempre e comunque. Regno di sbirro. Sbirro di merda. Sbirro, sulla carta. Sbirro nel sangue. Colla Beretta d’ordinanza in fondina e una tonnellata di fascicoli eternamente in arretrato. Con qualche moneta da parte e, non si sa mai, con quel colpo fottuto in canna per quella mala evenienza.
Il peggiore fra gli sbirri, ma il migliore fra gli “invisibili” in questura.
Bastià Vinci, Commissario Capo. Sbirro. Con tanto di matricola, coccarda e placca onorata.
Il mio sbirro. Forse, negli ultimi dieci anni, il padre di tutti, qui al palazzo.
Da quasi quarant’anni. Dalla Catturandi alla Omicidi, dalla Omicidi ai turni in Amministrativa.
“Prego, avanti. Dica!”
Con le dita sporche di sangue, l’afferrò con forza. Alla base. La tenne stretta. Una pallottola Spitzer. Perfettamente ogivale. Compiutamente fredda e crudele. Un calibro .270 Winchester. Tiberio si curvò di quel tanto da sentire l’alito sporco di sangue dello sbirro. Poi, con l’ogiva tra le dita segnò una linea dritta lungo la guancia del Commissario. Vinci cercò di voltare la faccia. Ma la sinistra del gigante gli afferrò il cranio ed esercitando una feroce pressione con il palmo della mano, tra tempie e capo, gli tenne ferma la testa. L’ogiva, sospinta lentamente, insinuandosi tra le labbra spappolate, giunse fino alla gola.
In quegli occhi, lacerati da tagli e cazzotti, tutto il dolore che un uomo può raccontare alla pietà.
Con Massimo l’intesa fu fulminea. Era il mio “doppio” da vent’anni.