Vado dritto al punto. Ho faticato molto a terminare la lettura di questo romanzo. Ho faticato molto ma volevo/dovevo leggerlo fino all’ultima pagina perché un autore come Ian McEwan merita rispetto. Un autore come McEwan non lo si può liquidare neanche a metà strada, a pagina 220, più o meno il punto in cui stavo meditando di chiudere il libro. Ci vuole stile anche in queste piccole cose. Ma andiamo avanti. Di McEwan ho amato storie come Espiazione, Miele, Amsterdam, Nel guscio… Lezioni è arrivato in libreria sull’onda e la spinta di tre quattro recensioni efficaci, credibili soprattutto. Una su tutte quella di Sandro Veronesi, che per questo libro ha speso parole importanti: “Il più bel romanzo del secolo”, ha scritto il due volte premio Strega sull’inserto del Corriere della sera. E Le correzioni di Franzen, Gilead di Robinson, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Chabon, La macchia umana di Roth, Notturno cileno e 2666 di Bolaño, Piattaforma e Serotonina di Houellebeq? Mah. Lezioni è un romanzo furbo e in alcune parti palesemente furbo.
L’idea di raccontare la storia del Novecento mescolandola alle vicende private del protagonista, l’everyman britannico Roland Baines, a me è sembrata poco originale e con degli intarsi narrativi inutilmente vischiosi. Chi è davvero Roland Baines?, si chiede l’editore nella sinossi del libro. La vita di Roland, con la sua infanzia libica che ricorda molto quella di Mike Balistreri nella trilogia del male di Roberto Costantini, è segnata anzi marchiata a fuoco da tre donne. La biografia di Roland avrebbe avuto ben altra consistenza se fosse stata contenuta nel binario privato, spogliata cioè di quel contorno sociologico, politico che l’appesantisce facendola perfino scomparire, in alcuni passaggi, tra le pieghe di fatti poco rilevanti o dispersivi. Il rapporto tra il piccolo Roland e la lussuriosa Miss Miriam Cornell, che McEwan introduce già nel primo capitolo, ci cattura subito. È l’elemento più attrattivo del romanzo. Miriam punisce gli errori dell’allievo con dei pizzicotti sulle gambe e premia i pezzi di bravura con baci sulla bocca. Ma attenzione, c’è dell’altro, ed è difficile immaginare, finché non l’avrete letta, la spericolata evoluzione che l’autore imprime a questa lunga sequela di appuntamenti prurigino-musicali. Prima di Miriam c’è la madre di Roland, Rosalind, figura algida e intransigente, per quasi mezzo secolo sotto il comando del marito Robert, veterano della Seconda guerra mondiale in servizio nel Nord Africa.
La terza donna è Alissa, la moglie di origini tedesche, che di punto in bianco scompare lasciando Roland da solo con Lawrance, il figlio di pochi mesi “il bambino che non era stato nei suoi piani e che non sentiva il bisogno di amare”, tra i sospetti della polizia che non esclude il più tragico degli epiloghi. La fuga di Alissa somiglia a quella di Rachel, la madre del piccolo Dylan nel capolavoro di Jonathan Lethem ( La fortezza della solitudine). La parabola esistenziale di Roland è costellata di delusioni e da un logorante senso di inadeguatezza. Il musicista promettente diventerà prima intrattenitore da pianobar, poi un aspirante scrittore costretto ad arrangiarsi inventando frasi per biglietti di auguri. Gli abusi, i soprusi lasciano ferite profonde ma quelle lezioni serviranno a Roland a dare un significato nuovo ai giorni che verranno, a capire qualcosa di sé, qualcosa su cui non si era mai soffermato prima. Nel frattempo, come dicevo, intorno a lui scorre la storia: il crollo del muro di Berlino, la crisi dei missili a Cuba, i governi di Margaret Thatcher, la guerra in Iraq, la recente pandemia da Covid. Nel progetto di McEwan Roland ne deve fare parte, ma il ruolo sembra forzato, Roland è fin troppo consapevole del flusso che gli passa accanto. Ed è questo che non convince del romanzo: l’incredibile centralità del borghese picolo piccolo nel susseguirsi di grossi eventi destinati a cambiare l’umanità.
Angelo Cennamo