Il cielo era basso quella mattina. Bastava alzare un braccio per avere la sensazione di toccarlo. Il colore di un grigio indefinito si confondeva con quello dell’asfalto e la temperatura rigida affrettava il passo di chi, da sempre, rincorreva il tempo.
La periferia milanese si mostrava per quella che era: alveari di cemento come rifugi per dialetti del sud destinati a confondersi con quello meneghino.
Andrea, con i libri pesanti sottobraccio e gli occhi bassi, il cappuccio del montgomery tirato su a coprirla dal freddo e dagli sguardi dei passanti, camminava rasente i muri. Stesso percorso: da casa a scuola. Stessi pensieri: tutti contro quelle maledette materie da studiare per forza e il suo nome, non adatto a una femmina.
I suoi avevano fallito entrambe le scelte. Quattro anni persi a frequentare l’Istituto Tecnico Commerciale inseguendo un diploma così distante dal suo essere e diciassette a sentirsi chiamare Andrea. Ma proprio quello dovevano darle? Certo. Così almeno in parte camuffavano la mancanza di quel maschio tanto desiderato e mai venuto.
Avevano pensato a quali danni, delusioni, dolori la figlia sarebbe andata incontro, o non si erano neppure posti il problema?
In lei non erano tardati i sensi di colpa per non averli accontentati. Era di sesso femminile. L’unico modo, almeno nei primi anni, per rimediare, era comportarsi come un maschio. Dai giochi, agli atteggiamenti, alle amicizie. In agguato era arrivata la prima cotta, e lui era un ragazzo. Qualcosa non aveva funzionato oppure gli elementi della scacchiera avevano trovato il posto e il ruolo che gli altri si aspettano? Quanta confusione nella sua testa. E maledetti loro! Non avevano capito il suo bisogno di attenzione, di amore e tutti gli sforzi tentati per farsi notare.
I genitori hanno sì o no l’obbligo di mostrare la loro vicinanza?
Dare la vita per un figlio, in quel caso, era solo una frase fatta. Loro avevano risucchiato la sua.
Non glielo avrebbe mai perdonato.
La scuola non la sopportava da sempre. Era il luogo della vicinanza con i coetanei e lei apparteneva a un altro mondo. Si era sentita sola, isolata, derisa. Ne aveva sofferto.
Troppo presto per sentire la vita dietro le spalle e provare insofferenza vero il futuro.
Poi il cambiamento: il dolore si era trasformato in fierezza, addirittura in gioia.
L’unicità era quello che provava. Il suo rifugio.
Sentirsi braccata, e libera appena svoltato l’angolo delle convenzioni.
Degli altri non le interessava. Neppure dei maschi. Ormai li trovava insulsi.
Bastava a se stessa.
Riguardo al sesso c’era sempre il fai da te.
In famiglia scambiava poche parole giusto quelle per farsi passare il sale o la bottiglia dell’acqua durante la cena. Il giorno non era necessario: ognuno lontano nel proprio mondo. Il padre in fabbrica, alla catena di montaggio, e la madre dietro la cassa di una bottega di alimentari.
Visti con occhi estranei erano una famiglia, con i suoi, un’accozzaglia di elementi respingenti.
Dell’andamento degli studi non chiedevano notizie. Bastava la promozione a fine anno. Lei si limitava a ottenerla con il minimo sforzo. Giusto per non dover prolungare lo strazio di frequentare più a lungo quella merda di posto, non certo per fare un piacere a loro.
L’unica volta che i genitori avevano varcato il portone della scuola era stato su convocazione del direttore. In quinta elementare Andrea, stanca di sentirsi chiedere dai compagni, con aria di scherno: “ma con quel nome sei un maschio o una femmina?” senza pensarci su aveva abbassato le mutande e chiarito ogni equivoco.
La parola amicizia le era estranea. Incazzata con la vita, confinava con se stessa. Impossibile, quindi, avere degli amici, almeno che non s’imbattesse in qualcuno che lo fosse più di lei.
Di lì a poco sarebbe accaduto. Il mondo sarebbe cambiato.
Stavano per finire gli anni sessanta.
La rabbia, la solitudine trasformate in tutti uniti contro ogni perbenismo prendevano il sopravvento. Non più sola, Andrea aveva trovato la sua ragione di essere ignorando la breve durata di un’utopia.