Ci ho pensato molto a cosa abbiamo perso quando abbiamo perso Kurt Vonnegut, e la cosa principale che mi torna sempre in mente è che abbiamo perso una voce morale. Abbiamo perso una voce molto ragionevole e credibile – il che non significa seriosa o non incisiva – che ci aiutava a capire come vivere.
Da quando c’è internet, Dio lo benedica, siamo assolutamente sommersi da commenti e opinioni. Non si può ancora dire di preciso, ma fin qui sembra funzionare. L’accesso a tutti – chi commenta e chi legge – è disponibile in modo più democratico, e ciò è senz’altro un bene. Abbiamo un milione di persone o giù di lì che quotidianamente offre consigli, riflessioni, punti di vista, e un tentativo qua e là di darci una mano a vivere in maggiore armonia con il nostro pianeta e gli altri esseri umani. D’altro canto, per ottenere attenzione in rete (e in televisione, se è per questo), un commentatore, spesso e volentieri, dev’essere rumoroso, radicale o pazzo. Perciò la gran parte dei commentatori rientra in tutte e tre le categorie.
Poi abbiamo i nostri romanzieri e scrittori di racconti. In confronto, queste persone sembrano sane e di buone maniere. La fregatura è che, nel complesso, sono molto schivi. Lavorano senza sosta nei boschi o nei campus o a Brooklyn, e sono così educati che non direbbero mai a nessuno, figuriamoci ai loro lettori, come vivere. E così il grosso della letteratura contemporanea, sebbene sia davvero geniale e splendida in moltissimi modi, è anche priva di intenti morali.
Ora, non sto dicendo che la letteratura debba spiegarci come stare al mondo, o debba offrire chiare direttive morali. No. No. Non sto dicendo questo, commentatori di internet. Ma sto dicendo che ci sta se parte della letteratura contemporanea fa questo lavoro. In un ambiente letterario pluralistico – e ne abbiamo bisogno, lo dobbiamo mantenere, coltivare, in modo che decine di stili e generi diversi possano coesistere senza la malaugurata idea che ci sia una forma letteraria miracolosa che renda inutili tutte le altre – in un ambiente come questo non potremmo avere qualche scrittore che se ne esce fuori e ci dice «Questo è cattivo, questo è buono»?
Ma pochi, preziosi scrittori lo fanno. Ci siamo ritirati collettivamente da ogni aspetto istruttivo del nostro lavoro. Il risultato è che i nostri racconti – parliamo qui soprattutto di racconti, visto il contesto – sono pieni di belle frasi e sfumature, ma fanno fatica, troppo spesso, a colpire.
Sarò il primo ad ammettere che anch’io sono stato educato a tenermi cautamente lontano dall’offrire un finale pulitino, una morale chiara, ai miei racconti. Se ci penso, non sono sicuro di aver mai lanciato alcun messaggio esplicito in un racconto. Come scrittore sono cresciuto in un’epoca in cui un tale approccio era fuori questione. Ero distante almeno due generazioni dai giorni in cui i racconti popolari e letterari tentavano di fornire un finale risolto, una conclusione che sorprendesse il lettore facendogli però anche riconoscere in modo chiaro il senso della storia.
Ma Vonnegut l’ha sempre fatto. E, sempre di più, ciò che ha detto sembra raro e necessario. I suoi racconti hanno spesso finali che rendono abbondantemente chiaro che una lezione è stata imparata, dai personaggi (di solito) e dal lettore (sempre).
Sono un grande lettore di Vonnegut fin dall’adolescenza, ma solo dopo aver letto queste due raccolte postume di racconti, Baci da 100 dollari e Look at the Birdie, ho capito quanto forte era il Vonnegut moralista. Sapevo che come uomo e saggista non si vergognava di rendere note le sue opinioni. Parlava benissimo di Gesù Cristo e diceva sempre cose chiare e semplici come «Maledizione, bisogna essere gentili». E siccome assomigliava a un Mark Twain hippy e sembrava più vecchio di quello che era, era convincente. Anche nella mezza età aveva l’aria di uno di quei vecchi uomini di Stato che possono dichiarare le loro opinioni, con aria scorbutica, su ogni cosa, e la gente associa spontaneamente a quelle dichiarazioni una certa gravitas, guadagnata con una vita e un’opera esemplari. Quando hai combattuto nella Seconda guerra mondiale, sei sopravvissuto a Dresda, hai mantenuto la tua famiglia e hai adottato i quattro bambini orfani di tua sorella (dopo che lei e suo marito sono morti a pochi giorni di distanza l’una dall’altro), allora disponi di un po’ di credito nella banca dell’autorità morale.
E così eccoci a questi racconti, che furono scritti all’inizio della sua carriera, quando Vonnegut cercava di guadagnarsi da vivere con la scrittura. Scriveva molti racconti all’epoca, e cercava – spesso con successo – di venderli a riviste come Collier’s e The Saturday Evening Post, che all’epoca pubblicavano molta narrativa breve.
Chiaramente, il modo in cui scriveva allora era parecchio influenzato da ciò volevano queste riviste. Volevano racconti in prosa relativamente scarna, con intreccio forte, un conflitto semplice, e idealmente una sorpresa sul finale.
Potremmo definire questi racconti a trappola per topi. Era una forma popolare, se non dominante. Oggi siamo nell’era, diciamo, del racconto fotorealista. Nel grosso dei racconti contemporanei troviamo un realismo, un naturalismo, che ci dà più o meno quel che ci dà un fotografo. Un fotografo dotato incornicia la realtà in un modo che sembra al tempo stesso reale e nuovo. Il suo lavoro «regge uno specchio» di fronte alle nostre vite, ma lo fa in un modo per cui ci vediamo da un punto di vista nuovo. Tutte le forme d’arte tentano questa pratica di reggere lo specchio, ma la fotografia, e il racconto contemporaneo, sono mezzi particolarmente ben congegnati per lo scopo. E così il racconto breve contemporaneo ci regala personaggi che respirano, che sembrano tridimensionali, che vivono in posti reali, che hanno lavori e problemi e dolori reali. I racconti sono perlopiù al servizio di questi personaggi. I personaggi fanno mosse realistiche nelle loro vite, scelte realistiche, e il risultato è plausibile e forse perfino banale.
In un racconto a trappola per topi non è così. Questo tipo di racconto esiste per fregare o mettere in trappola il lettore. Muove il lettore lungo la storia attraverso un meccanismo complesso (ma non troppo complesso), fino alla fine, quando scatta la molla e il lettore si ritrova in trappola. E così, in questo tipo di storia, i personaggi, l’ambientazione, l’intreccio, sono tutti grossomodo dei mezzi rivolti a un certo scopo.
Non significa che i personaggi non siano realistici, credibili, difficili da capire o non abbiano in genere le caratteristiche che ci aspettiamo dai personaggi. Al contrario, Vonnegut è un maestro quando si tratta di abbozzare un personaggio che sia istantaneamente riconoscibile e che il lettore abbia subito voglia di seguire.
Ma alla fine, i loro giri sono determinati dal fabbricante della trappola, i loro destini sono al servizio di uno scopo superiore.
E così, quando cominciate un racconto di questa raccolta, sapete che state per trovarvi in trappola. E sapete una cosa? È bello farsi mettere in trappola. Questa raccolta è piena di storie relativamente semplici su persone relativamente semplici. In un racconto, un marito gioca troppo con i suoi trenini, trascurando la moglie. (C’entra davvero poco con Ghiaccio-nove.) In un altro, un giornalista che irride il Natale è costretto a fare da giudice in un concorso di luci natalizie. Una giovane eredita una fortuna ma si sente oppressa dal peso del denaro e non riesce a fidarsi dei suoi nuovi corteggiatori. (Guardate quante volte queste storie riguardano la ricerca dell’idea anni cinquanta del successo: soldi facili, una limousine, buoni dividendi in borsa; Vonnegut, che lavorava come pubblicitario, stava anche lui faticando per superare i problemi economici.)
In ogni caso, qualunque sia l’intreccio, tu come lettore sai che alla fine del racconto arriverai da qualche parte. Che Vonnegut ti dirà qualcosa con candore e chiarezza. Che essere una persona onesta è un obiettivo desiderabile e raggiungibile. Che credere ha un
valore. Che la ricchezza risolve pochi problemi. Messaggi semplici, sì, ma c’è un motivo per cui dobbiamo farci ricordare simili cose, e si prova sollievo quando le si vede espresse ad arte ma senza opacità.
Queste storie d’inizio carriera sono diverse dai romanzi successivi di Vonnegut, dove il tono è più cupo, scuro, più esasperato, dove le sfumature sono molte e le lezioni più complesse. Sebbene, mentre scriveva questi racconti, Vonnegut avesse già visto i bombardamenti di Dresda, avesse trascinato gli scarponi fra i corpi carbonizzati di migliaia di civili, avesse vissuto in un campo di prigionia tedesco, i racconti di Baci da 100 dollari hanno la chiarezza di sguardo di un giovane che comincia a capire come funziona il mondo. Puoi quasi immaginare un tipo dagli occhi gentili in cardigan e mocassini che scrive i suoi racconti in un bar che fa frullati, mentre riempie il juke box di monetine e batte felice a macchina.
Ma ovviamente non andava così. Era un uomo con figli che cercava di mantenere la famiglia mentre edificava le lettrici del Ladies’ Home Journal. Più avanti, ovviamente, avrebbe scritto, ripetutamente, della fine del mondo. E a volte di incesto, e molto spesso della follia della guerra, e dell’avidità e della depravazione delle nostre industrie e del governo. Ma per ora abbiamo il giovane volenteroso fabbricante di trappole per topi, e noi siamo la sua preda consenziente.
Dave Eggers
Tratto dalla prefazione a “Baci da 1oo dollari” di Kurt Vonnegut, Isbn, pp. 224, €. 17,50.