Sei un valido autore di racconti e vanti una scrittura evocativa e ammaliante: quanto di reale usi per le tue storie, quanta (ulteriore) finzione vorresti riporre nei libri che scrivi?
Non sempre parto da un base di realtà, o di vissuto, quando mi approccio alle storie che voglio raccontare, però mi ritrovo quasi sempre a inserire qualcosa di mio – che ho visto, che ho saputo, che ho conosciuto, ma anche che avrei voluto. Mi piace fondere alla finzione le mie cose, può essere uno degli approcci alla narrativa più divertenti, forse per chi scrive. A volte immagino come potrei reagire in una situazione a me completamente nuova; se fossi stato io a uccidere John Lennon oppure se fossi nato in un quartiere di Mumbai invece che in un paese della provincia padana. Sono sempre stato convinto che le storie siano innanzitutto un mezzo per intrattenere, ma anche un modo per ricreare altri-mondi, sia per chi scrive che per chi legge. È meno banale di quanto appare per iscritto. Immaginare un universo alternativo ma comunque appoggiato al reale, oppure un spazio-tempo diverso, è tra le cose più importanti che abbiamo la fortuna di possedere. Mi viene in mente un film, Big Fish di Tim Burton: la figura del padre è magica ed emblematica, perché determina, nella finzione dell’intrattenimento cinematografico, un’enorme verità, ovvero che ci sono luoghi infiniti dove possiamo essere ciò che non siamo, non saremo, non siamo stati. Credo che la narrativa è uno di quei luoghi.
Nel tuo romanzo breve d’esordio (La raggia – Pidgin Edizioni) hai immaginato dei personaggi letterari che hanno problemi di convivenza con gli altri simili prima e col resto del mondo dopo. Quanta fatica quotidiana ti costa scrivere di legami umani?
Amo scrivere di legami, non solo umani. L’ho fatto anche nel secondo libro, la raccolta di racconti Temevo dicessi l’amore, che è uscito qualche mese fa per Terrarossa. Ho preso una vita, quella di Ofelia, personaggio principale di tutti e quattordici i racconti, e l’ho stesa attraverso un arco narrativo frammentato e uno spazio-tempo destrutturato, narrandola attraverso il rapporto che Ofelia stessa ha con i suoi simili e con il mondo animale.
Il lavoro che ho fatto con La Raggia, però, è diverso; avevo la necessità di raccontare un’emozione, la rabbia – per l’appunto la raggia in dialetto – e per farlo volevo scavare nei rapporti familiari traumatici; quello con un padre violento, una madre assente, un luogo oscuro e impalpabile, un animale guida nocivo.
Non è facile. Con la novella d’esordio mi sono trovato a fare i conti con i miei mostri, rendendomi conto che ciò che conoscevo di loro fino a quel momento, era solo una minima parte della complessità effettiva. Attraverso i diari del protagonista ci ho fatto a botte, ho imparato a conoscerli e ho capito che sono indomabili, ma gestibili. È paradossale, ma ci sono bestie incontrollabili che si lasciano governare. Nell’introduzione a Mašen’ka, Nabokov scrive: «La nota propensione dei principianti a violare la propria vita privata inserendo sé stessi, o un sostituto, nel loro primo romanzo è dettata, più che dall’attrattiva di un tema già pronto, dal sollievo di sbarazzarsi di sé prima di passare a cose migliori». Potrebbe essere vero, anzi lo è.
Con Temevo dicessi l’amore ho dovuto considerare i rimpianti; non mi riferisco a ciò avrei potuto scrivere e non ho scritto o a come avrei potuto raccontare in modo differente determinate cose, parlo di occasioni mancate, le mie rispetto a quelle dei personaggi delle mie storie. In questo specifico caso ci sono io, ma che mi allontano da me stesso, mi evito e poi c’è il mio personaggio principale in rapporto, strettissimo, con i personaggi secondari, punti di vista periferici che determinano cos’è la protagonista e qual è il suo messaggio. Sto pensando che avrei voluto amare nel modo in cui ama Chiara – un personaggio periferico – oppure avrei voluto essere cinico come l’Ofelia di uno dei racconti. Avrei voluto davvero che quel cane parlasse, perché mi sarebbe servito, a un certo punto della mia vita.
Vedi? Torno sempre lì, agli sliding doors, lo stargate per un mondo altro. Che diventano, credo, nel mio libro, uno zeitgeist. Forse, irrazionalmente, i veri rimpianti – anche se non li chiamerei propriamente rimpianti, li chiamerei con una parola che non esiste – non si riferiscono a ciò che non abbiamo fatto o che avremmo potuto fare, ma all’utopia come gioco d’immaginazione rispetto a ciò che non si sarà. A volte immagino di essere come quel musicista. È un rimpianto divertente.
In quanto autore, quali sono i tuoi Maestri Narratori di riferimento e da cui non vorresti mai separarti?
Più che Maestri di riferimento, credo di avere delle opere di riferimento. Sono molte, di alcune ho dimenticato il motivo della loro importanza, ma so che lo sono state. Altre non so nemmeno che lo sono state, lo sono state e basta, in punta di piedi.
Sono sempre stato convinto di una cosa: non ho una buona memoria, me la sono mangiata negli anni dell’assenza di consapevolezza – che credo in qualche modo siano ancora qui, siano ancora questi, anche se vedo la linea di fondo – non ricordo molte cose e non ricordo quasi mai i libri che leggo. Li dimentico dopo meno di un mese. Ricordo qualcosa che mi è rimasto appiccicato dentro, un particolare, un periodo, un messaggio, un personaggio. Però di ogni libro che ho letto ho qualcosa che ho ripreso inconsapevolmente e ho inserito nel mio modo di vedere la narrativa e di scriverla, di intenderla. Mi faccio sopraffare, senza una reale consapevolezza, dalle cose che ho dimenticato.
C’è molta letteratura americana: Ultima fermata a Brooklyn, Disturbo della quiete pubblica, La scopa del sistema, Meno di Zero e American Psycho. C’è Crash, Città della notte rossa, Underworld, Gita al faro, Fight Club, Ballando in America, Creature nel giardino, La svastica sul sole, Cthulhu, Mira Corpora, La vita è un’altra cosa, Il mambo degli orsi e Bad chili. E c’è anche la letteratura italiana: Rosso Malpelo, Memorie di una ladra, Il primo Dio, La luna e i falò, Il prete bello, Il male oscuro.
C’è il cinema: Gummo, Ferro 3, Dogville, Amore tossico e Non essere cattivo, Elephant, Blade Runner, Mulholland Drive e Twin Peaks, Ritorno al Futuro, I Goonies, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Mondo Cane, Kynodontas, Milano Calibro 9, tutti i film di Refn.
C’è la musica: l’hardcore punk, i testi dei Sottopressione e dei Wretched, dei Negazione. Jello Biafra, Morricone, Brian Eno, i Talking Heads, la new wave, i Sabbath.
Potrei andare avanti a lungo.
C’è la video arte di Vito Acconci e Laurie Anderson, Bill Viola.
A proposito di Bill Viola e delle cose che dimentichiamo: qualche tempo fa sono stato a una sua personale, al Palazzo Reale di Milano. C’è un’opera, s’intitola Ocean without a Shore, è del 2007. L’avevo già vista da qualche parte, anni fa, e poi me la sono dimenticata.
Trovandomici davanti nelle stanze del Palazzo Reale, mi sono accorto che quell’opera potrebbe tranquillamente rappresentare parte del messaggio che c’è all’interno di Temevo dicessi l’amore. Voglio dire, io credo nel caso, come credo nel caos – e non è un caso – però voglio anche credere che quel lavoro potrebbe essere un’immagine dimenticata della mia memoria, tornata sotto altra-forma a originare un altro-mondo, nella sua logica o nel suo discorso con me stesso.
Però sì, ce l’ho un maestro, il mio primo Dio: Cormac McCarthy.
Che rapporto hai con la fotografia? E quali sono i tuoi autori preferiti di questo medium narrativo?
Un rapporto buffo. Non sono un fotografo, nel senso che ho studiato talmente poco – e da autodidatta – che mi vergognerei a definirmi tale. Ho conosciuto delle persone che lo sono e lo si capisce chiaramente da come ti guardano che per loro la fotografia è un modo per esprimere ciò che altrimenti non riuscirebbero a dirti. Per me lo è la narrativa.
Nonostante questo, fotografo quasi ogni giorno. Uso macchine analogiche, ho una Canon a cui ho dato un nome – mi è stato consigliato dal mio amico Loris -, le voglio bene. Scatto solo a rullino per una sorta di rifiuto verso la velocità e la frammentazione della contemporaneità. Voglio dover aspettare lo sviluppo, la scannerizzazione in digitale, che faccio da me, passare a ritirare i negativi dal laboratorio. È un rituale basato sull’attesa e sulla pazienza. È qualcosa di tribale.
Mi piace fotografare la quotidianità, la mia e quella della mia famiglia, delle persone a cui sono legato, della città in cui vivo e delle città che mi capita di visitare. Berlino è un luogo che non offre molto a livello di bellezza architettonica, si sa – anche se comunque ha il suo fascino e per quello lo considero un superluogo -, ma è nei gesti di ogni giorno che trovi la magia di un tempo-spazio che ha una storia e una cultura non standardizzate. Mi piace pensare che fotografo in modo punk, qualsiasi cosa possa voler dire e magari non significa granché. La narrativa, quando scatto, la trovo a posteriori, una cosa che mi capita anche quando scrivo. Ci sono volte che metto insieme una serie di scatti e ci trovo dentro una storia incredibile, che magari percepisco solo io, ma che a me basta. Ci sono altre volte che parto da un’idea – della morte o di un dolore – e attraverso questa creo un sentiero. A volte nessuno lo asfalta.
Riguardo ai fotografi. Ti faccio qualche nome completamente random, di gente che mi ha ispirato molto: Luigi Ghirri, Bill Owens, Martin Kollar, Anastasia Samoylova, Daido Moriyama, William Eggleston, Antoine D’Agata, il mio amico Loris Rizzo e il mio amico Luigi Mazzucchi, che attraverso i loro scatti, mi hanno dato moltissimi spunti su cosa voglio e cosa non voglio dalla fotografia.
Ogni scrittore immagina un lettore ideale. O forse no. Per te esiste? Se sì, il tuo lettore ideale come è fatto?
Non ho un lettore ideale. Forse, molto banalmente, ho in testa un lettore che mi piacerebbe s’impegnasse il giusto nel leggere la mia narrativa. Anche perché, fino ad ora, ho scritto cose che hanno bisogno di una certa dedizione da parte di chi legge. È una prerogativa che mi sono dato, un modo per dirmi parte di qualcosa di veramente mio. Con la consapevolezza che non sono mai lo stesso quando scrivo e domani forse sarà diverso e allora cambierà anche il lettore ideale. Per questo non ce l’ho.
Come impieghi il tempo quotidiano dedicato alla scrittura delle tue storie?
Credo di aver imparato a scrivere in qualsiasi condizione ambientale. Avendo un figlio piccolo, mi sono abituato a isolare i rumori esterni, che quando c’è lui in casa sono molti e soprattutto parecchio molesti. Ho imparato a scrivere ovunque. Parte del mio primo libro l’ho scritto all’interno di un cimitero, a Berlino. Non ho rituali, a parte quello di spegnere tutti i social, compreso il telefono alle chiamate.
Quale tipo di storia non scriveresti mai?
È una domanda difficile. Non c’è una storia che non scriverei, perché non credo ci siano storie non raccontabili. Ci sono storie inconfessabili oppure indicibili, ma questo non significa che non si possano raccontare. Anzi.
Le storie sono atti limitati nel tempo, che è infinito, forse sono dei gesti che facciamo per portarci dietro qualcosa; una sensazione, un messaggio oppure un messaggero. Le possiamo raccontare a noi stessi, nascondendole agli altri, le possiamo scrivere sottovoce e rinchiuderle da qualche parte. Però se mi chiedi quale non scriverei mai, non so dirtelo, perché non ce l’ho ancora una storia così e, soprattutto, non ho nessuna certezza del mai. Mi ricordo che, quando ero adolescente, spesso, davanti a un compito difficile, di qualsiasi natura fosse, dicevo: “Non ce la farò mai”. Mio padre mi ripeteva sempre: “Non esiste mai”.
Voglio dire, certo che esiste Mai, ma non ci devi pensare mai, non lo devi dare per certo: forse un giorno diventerò un astronauta e raggiungerò un satellite.
Come hai scoperto la passione per la scrittura?
È stato durante il primo anno di superiori. La professoressa di italiano si è ammalata ed è arrivata una supplente. Una donna molto alta e con un sorriso luminoso. Si è presentata dicendo che ci avrebbe permesso di scrivere una storia. Ha consegnato dei fogli protocollo e ci ha dato il via.
Non avevo mai scritto una storia prima di allora. Ero annoiato e volevo uscire dall’aula, probabilmente a fumare una canna. Credo di aver scritto di un cavaliere che fuma cannabis in un castello disabitato. Non ne sono sicuro, forse ho scritto solo di un castello vuoto.
Al cambio dell’ora ha ritirato le nostre storie. Il giorno dopo è rientrata in classe e ha comunicato che sarebbe stata la nuova professoressa di italiano, almeno fino al termine dell’anno scolastico. Finita la lezione ci siamo alzati per andarcene, ma lei mi ha chiamato alla cattedra. Ha detto – Tu devi continuare a scrivere – e io l’ho guardata senza sapere bene cosa dire, cosa pensare. Lei ha continuato – ma mica devi scrivere perché sei bravo, devi scrivere perché ti serve scrivere -.
Non ho più smesso e da quel momento è iniziata una nuova vita. Non l’ultima, ma forse la più importante di tutte.
Quale legame intercorre tra i tuoi appunti visivi da fotografo, a proposito dei luoghi che visiti, e i tuoi appunti da scrittore, a proposito delle vite dei personaggi letterari che inventi?
Credo di avere, con la fotografia, lo stesso approccio che ho con la scrittura, ma con molta meno dimestichezza. Con la scrittura non vado a tentativi, cosa che faccio invece quando scatto. Quando scrivo so dove sono e, a volte, dove voglio arrivare. Se so il dove so come raggiungerlo. Quando fotografo vige l’anarchia. Cerco di capire cosa sto facendo, basandomi sul poco che so, ma poi è istinto. Solo in parte so cosa sto facendo, vado di stomaco e mi affido alle variabili della luce, dell’errore, dei movimenti. Oltretutto, negli ultimi due anni, ho scattato molto con rullini scaduti. La variabilità è ancora più imprendibile.
Quando fotografo, gli scatti stessi diventano i miei appunti, mentre quando scrivo mi affido alle note del telefono, moltissimo alle note vocali, oltre che a tutta una serie di block notes sparsi ovunque tra zaini, marsupi e tasche.
Racconteresti ai lettori di Satisfiction, in breve, di cosa ti occupi a Berlino?
Sono principalmente un freelance. Ho lavorato molto come giornalista, ma da un paio di anni a questa parte, mi sono sbilanciato verso la narrativa e l’editoria – probabilmente seguendo la scia del libro d’esordio. Sono editor freelance e collaboro anche in pianta stabile con Pidgin Edizioni. Lavoro come ghostwriter.
Oltre a questo, a Berlino, ho un progetto che porto avanti da dieci anni: un hub creativo chiamato Le Balene Possono Volare, che si occupa di organizzare eventi – presentazioni di libri, eventi letterari e artistici, vernissage, live, performance teatrali – e laboratori creativi per italiani. Io, nello specifico, conduco dal 2014 dei laboratori di scrittura creativa.
A Berlino ho anche fondato due riviste, un magazine di giornalismo di approfondimento, Yanez, e una rivista letteraria destinata a morire entro massimo tre numeri – siamo al secondo – Rivista Eterna.
Sono dj, anche se ultimamente sto suonando meno e in orari da fascia protetta. L’età si sta facendo sentire, prima reggevo la notte – le notti – in modo decisamente più tonico.
Stai lavorando a un nuovo libro? Se sì, racconteresti ai lettori di Satisfiction di cosa parla?
Sto lavorando alla revisione di un romanzo che sarà pubblicato nel 2024. È la cosa più lunga che ho scritto finora ed è comunque abbastanza breve.
Mario Schiavone
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Mattia Grigolo è cresciuto nella provincia milanese e vive a Berlino. Ha fondato la rivista letteraria «Eterna», il magazine di approfondimento «Yanez» e cura laboratori di scrittura con l’hub creativo Le Balene Possono Volare. Suoi contributi sono apparsi su diversi periodici e siti online e nel 2022 ha esordito con il romanzo breve La raggia (Pidgin). Temevo dicessi l’amore è la sua prima raccolta di short stories e include molti inediti, un testo pubblicato su «Crack», uno su «inutile» e due racconti vincitori del Premio Zeno 2022.