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Rodrigo Fresán. Melville

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Allan Melvill era un poeta romantico. Non scrisse un solo verso, ma visse come Byron, come Percy Shelley, come Papasquiaro. Selvaggio, istintivo, inseguì la forma dell’acqua, il colore del ghiaccio, fino a soffocare di febbre infantile.

Si tagliò il palmo di una mano con un coltello catalano per allungare quella linea della fortuna che sempre gli risultò corta come la corda dell’impiccato.

Dovettero legarlo al letto, alla fine, perché non arrecasse danno a sé stesso e ai suoi figli.

Ragazzo, partì dall’America e arrivò in Europa per un viaggio formativo che avrebbe dovuto trasformarlo in uomo d’affari, tutto d’un pezzo, un americano pratico e deciso. Tornò invece estremamente Europeo, refrattario al denaro, sognatore, astratto, con gli occhi più grandi di quando era partito e il cuore inondato di luce.

Contrasse una febbre delirante per la vita, una smania feroce di sfuggire alla stabilità.

Il viaggio fu un disastro e un successo senza pari.

Perché anche la più piccola avventura, poi, ai suoi occhi, nei suoi racconti, si trasformava in un’epopea, una crepa d’insensatezza da cui sgocciolava il senno fino alla Luna e quasi tutto lo versò in una notte del 1831, il 10 dicembre, quando il fiume Hudson si tramutò in una strada gelata e scintillante nel buio. Allan percorse un miglio a piedi senza vedere, con le luci delle case come baluginanti stelle nel cielo. Naufragò del tutto, pieno di debiti, al punto che dopo la sua morte i familiari dovettero aggiungere una “e” alla fine del cognome perché l’onda dei creditori non potesse raggiungerli.

Raccontò la sua storia al figlio Herman troppo piccolo per sapere chi era e che avrebbe tramutato, travisato, i racconti del padre in una storia sola, immensa e sgangherata, con dentro pirati e pesci, naufragati e perduti, che avrebbe detto a tutti noi, esseri umani, qualcosa in più su quello che siamo.

Melville di Rodrigo Fresán, edito da Mondadori e tradotto da Giulia Zavagna, non è una biografia, è un romanzo dove si narra la genesi di uno dei più grandi scrittori della storia.

Raramente bado alle copertine dei libri. Mi sono utili in un primo momento, quando entro in una libreria senza idee e poi un’immagine mi rapisce e comincia l’innamoramento. Quando però sto vivendo la storia, la dimentico. Di solito non hanno molto a che fare con il libro, anche quando sono belle. In questo caso però, in una maniera tanto semplice quanto efficace, la copertina riesce a sintetizzare l’intero concetto che Fresán vuole esprimere con questo splendido romanzo: la fusione tra il padre e il figlio, il bambino e l’uomo. Di tutto un ritratto giovanile di Melville padre, è stato isolato il ciuffo alzato da piccola canaglia che potrebbe essere di Herman quanto di Allan.

Fresán fa volteggiare i suoi Melvill come birilli e ne afferra uno mentre l’altro ancora vola. Mischia le voci, e non sai mai dove comincia il padre e dove riprende il figlio e poi il lettore se ne dimentica perché sono lacrime dello stesso occhio, nello steso pianto.

In un’intervista rilasciata poche settimane fa, Rodrigo Fresán ha detto una cosa che potrebbe aver detto Borges, che sarebbe piaciuta a Borges, che avrebbe fatto sorridere il suo amico Bolano, che dimostra il suo amore per la finzione, per la narrazione sulfurea e destabilizzante: Finora i riconoscimenti più importanti mi sono venuti dalla Francia e dal mondo anglosassone. E questo, sinceramente, turba un po’ il mio amor proprio. Sa, non vorrei che i miei traduttori scrivessero meglio di me.

Pierangelo Consoli

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Melville, Rodrigo Fresán, Mondadori 2023, Pp. 304, euro 20.

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