“Vanno rispettati”, diceva la nonna di Gabriela – «mi metteva in guardia». “Se li ignori, possono mettersi contro di te”. Sono i «potenti guardiani invisibili» che vivono negli spazi naturali: nei boschi, in particolare, è «possibile percepirli». Ed è lì che, scettica fino a quel momento, Gabriela li sente – «membra di un essere dotato di coscienza che ci osserva».
Siamo al terzo racconto della raccolta intitolata “La vita altrove” (La Nuova Frontiera, settembre ’23) della scrittrice Guadalupe Nettel – ormai sulla bocca di tanti, ormai letta e riletta, ormai premiatissima. Si intitola “Giocare col fuoco” il quale, neanche a dirlo, accende letteralmente l’intera opera, consegnando al lettore un saggio della poetica dell’autrice: in lei, come l’Eros per Saffo, il fantastico si fa “creatura insinuante”, al punto da stordire il quotidiano decorrere ma sempre, o quasi sempre, disattendendo la sua completa manifestazione – proprio come il desiderio, tornando a Lesbo. Il bosco che si incendia – il titolo lo annuncia – risponde e corrisponde alla famiglia che lo frequenta durante un fine settimana, sul finire della pandemia: Gabriela, il marito e i due figli, l’uno preadolescente e oppositivo, l’altro ancora bambino e apparentemente innocuo. Un racconto-presagio che palpita dal primo all’ultimo rigo e che, dopo i due d’apertura – “L’imprinting” e “La confraternita degli orfani” – amari, ancorché rivelatori, insinua – verbo non casuale – il lettore nel mondo di Nettel.
Ecco allora che “La porta rosa”, quarto pezzo, può manifestarsi senza alcun imbarazzo nel suo essere incubo fantastico a orologeria – dove l’orologio che squassa l’esistenza di un marito annoiato è dato da una maledizione che si assume per bocca, come la più classica caramella dello sconosciuto. E parimenti, un’araucaria – conifera che raggiunge anche gli ottanta metri d’altezza – può custodire l’anima di un’intera stirpe familiare, resistendo persino a sé stessa, proprio come accade in “Un bosco sotto la terra”, nel quale si ripropone il tema della natura come attore dialogante, talora incidente, in ogni caso indistricabile dal “presunto” mondo degli umani.
Ma prima dei due racconti di chiusura, “Albatri vaganti” e “Torpore” – l’uno che insiste sulla natura, stavolta animale, intesa quale spartito dell’animo umano; l’altro che estremizza, in forma di distopia pandemica, il tema dell’isolamento – c’è proprio il brano “La vita altrove” che dà il titolo a tutta la raccolta. E non è un caso. Perché nella storia dell’attore fallito che si appropria di vita e appartamento non suoi, si congiungono molti punti della poetica di cui sopra: l’espropriazione improvvisa dalla propria esistenza, il fantastico come incubo immanente e persino quell’amaro innaturale presente nelle prime due storie. Un racconto, quest’ultimo, che, insieme a “Giocare col fuoco” (con tutto il suo corollario di presagi naturalistici), offre al lettore un ritratto particolareggiato della scrittrice messicana, la quale spesso è ricorsa proprio alla forma breve per esprimere la sua grande forza immaginifica.
Alessandro Galano