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Mario Soldati. Le lettere da Capri

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Moralità è un concetto desueto. Lettere da Capri, che valse a Mario Soldati il Premio Strega del 1954, superando autori come Dino Buzzati, Carlo Cassola, Oreste Del Buono, è un romanzo per smontare l’immaginaria storia di sé: la moralità. La narrazione si dipana a tre voci. Il regista Mario, prima proiezione dello scrittore torinese, Harry, funzionario dell’Unesco e storico dell’arte americano, che si occupa di catalogare il patrimonio artistico italiano nel dopoguerra, e Jane, infermiera e moglie di Harry, religiosa e adultera.

Mario incontra, per caso, nel centro di Roma – altra grande protagonista del testo –, un vecchio conoscente, Harry, che non si risparmia a chiedergli un prestito in denaro. Mario accetta e Harry lo porta a casa per fargli conoscere Dorothea, opulenta prostituta romana di cui l’americano si è invaghito. Il regista desidera leggere un soggetto di Harry per aiutarlo economicamente, così si lascia trascinare dalla magneticità di Dorothea. Il secondo narratore arriva quando Mario è a Parigi, dove riceve il soggetto dello storico dell’arte, il quale, scritto in prima persona, narra a metà la storia che ha portato il tempo fin lì, fino alla povertà e all’amore. Harry descrive l’innamoramento come un avallo di pensieri contrastanti, immaginazione, erotismo vissuto e prima desiderato, anche per anni. L’oggetto non è importante, conta il sé; disegna un immaginario, per intensità e protocollo, che rende affascinante leggere la prosa semplice, ordinata, in mezzo al disordine della diversità temporale e di costume. Dora è il sogno. Aspetto onirico che accumula inquietudine come una spugna, per rilasciarla sotto forma di amore. Dora diventa il sesso che non esiste. Infatti Jane, moglie devota a Cristo, presenta Dorothea a Mario e diventa complice dei desiderata del marito. La terza voce è proprio di Jane, presentata con il marchio di brava moglie dai saldi principi americani. Jane cura. Jane è mite. Jane è di buona famiglia. La sua presenza appare in disarmo, finché non è la sua. Rimane in disparte di fronte all’ego del marito, all’incedere, che lei stessa ha contribuito a costruire. Jane è Harry. Il romanzo è speculare, crea una trama a cerchio, per spiegare l’umana indifferenza di fronte agli altri, debolezza del sesso e dell’infatuazione facile, della bellezza e l’edonismo sibilato. Aldo, l’amante di Jane, straborda nella mente finché non fa sua la prossimità. È un’ossessione benigna, che rimane con i piedi per terra, facendo sopravvivere il matrimonio con Harry lontano e infedele.

Un tema del libro è la mordacità, elemento imprevedibile per alcuni e ovvio per altri, ma pur sempre presente. Mordace è il pensiero, il tempo, l’adulterio, la procreazione. Solo l’attesa è lunga e finisce con il sesso. Aggressivo è il desiderio di tutto, in particolare di una persona, che non è mai la stessa. Essenziale è la dichiarazione di colpa, come un infinito loop di assoluzione generico, di carcere per menti comuni. La mordacità è riflessione lenta e segreta, ma applicabile a ogni stato di grazia e di insofferenza. Una lettera è la testimonianza di ciò. Essa rompe l’equilibrio perché è ricattabile, è l’immaginario che si fa reale attraverso la parola scritta. La prova dell’esistenza di un legame astratto è il punto di rottura. Altro motore del romanzo è la soggettività del reale, della verità. Il pensiero che incide sul quotidiano, sulle reazioni, con un chiaro e intimo affabulare la stasi. Ogni deduzione è indotta. Dorothea è il sesso, poi il nulla, dopo la madre. Jane è la moglie, poi il sesso, dopo un’estranea. L’idea sovrasta l’oggettività, arrivando a semplificare senza meta. Il destino riflette se aggiustare, dandosi una forma di potere che entra nella coscienza.

Non sono secondarie le ambientazioni, tanto che diventano più importanti dell’amore: «Ora devo entrare. Ecco, mi avvio. Devo soltanto attraversare la strada. Tiro fuori la chiave di casa. Mi chiedo se riuscirò a fuggire un’altra volta». Il posto in cui siamo è il posto che siamo. Roma è il richiamo, il luogo, la proiezione. È più importante di Jane, fino a essere oltre Dora. È dove scappare per avere l’habitat dei pensieri caotici, un modo di vedere antiquato e moderno l’uomo. Harry esplora l’intera provincia italiana, la fa sua. Incontra un vecchio e fugace amore, chiuso in un paesino marchigiano come fosse il castello, dove le pareti sono di carta e si sente fuori. Lo storico dell’arte farebbe ogni cosa per l’Urbe, anche amare Dorothea, anche tradire Jane. Quando la situazione rigira gli attori, quando i ruoli si fanno intercambiabili e la prosa conclude che nulla era reale, rimane il posto dei sogni, la fuga, un’altra desiderata illusione di instabilità. Una Roma che anticipa i gesti e l’America che aspetta fedele. Il sogno americano ribalta in quello italiano, fatto di bellezza e scarsa avidità di profitto, innamoramento e poca volontà di ambizione. Si bloccano i giornali, affinché la notizia non si sappia, per una persona. Scrive Soldati: «E viene il giorno in cui anche la nostra ragione, d’un sol tratto, è capovolta. Le passioni, la passione, ciò che nel passato avevamo sempre giudicato bassezza o menzogna, d’un sol tratto ci balena come altezza e verità. Ecco la via, ecco la luce, ci diciamo con straordinario, se pur ingannevole conforto. Siamo anche noi come tutti gli altri, come tutta la gente per bene. Normali. Non abbiamo più dubbi. Che riposo! Era tanto semplice. Bastava un po’ di umiltà. Ci crediamo umili. E, da quel momento, siamo rovinati».

Tinto Brass si è ispirato a Lettere da Capri per il film Capriccio. Soldati, a sua volta regista di successo, ci ha lasciato un romanzo che può essere contemporaneo come la scrittura, fatta di prosaica libertà. Stupisce, delle pagine, delle lettere, la normalità informale, l’eccesso stupido ed esaltante di atti mancati. Scrive Raffaele La Capria, nella sua autobiografia letteraria Cent’anni d’impazienza, parlando del suo Capri e non più Capri: «Non vorrei che questo libro fosse letto con un sentimento di nostalgia per quello che Capri era e adesso non è più; così come non avrei voluto che L’armonia perduta fosse letta come un’elegia del bel tempo che fu. Più che la nostalgia conta il desiderio di appurare un po’ meglio come mai siamo come siamo, e come mai le cose sono giunte al punto in cui sono. E conta il desiderio di ri-conoscere i luoghi dove affondano le nostre radici, per potere – anche attraverso la scrittura – riappropriarcene e “appalesarli al mondo”». Mario Soldati si divise tra cinema e letterature, dal primo libro Salmace (1929) a capolavori cinematografici come Piccolo mondo antico e Le miserie del signor Travet, passando per un’opera raccolta in tre Meridiani Mondadori: Romanzi (2006), Romanzi brevi e racconti (2009), America e altri amori. Diari e scritti di viaggio (2011). Visse tra l’America e l’Italia, amò totalmente più donne tra cui Alida Valli, studiò e insegnò alla Columbia University. Lettere da Capri è il suo miglior lavoro, in cui si rintracciano pezzi dell’autore in ogni personaggio, non solo nel regista omonimo. Soldati crea una proiezione di sé, che è il suo amare; di sé come totalità, del suo amare come assoluto.

Federico Di Gregorio

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