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Cormac McCarthy. Stella maris

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“Tutti vogliono possedere la fine del mondo” è l’incipit del romanzo col quale Don DeLillo, alla soglia degli ottanta anni, inizia ad interrogarsi sul mistero della grande notte cosmica che lo attende.

In Zero K, lo scrittore del Bronx affida al miliardario Ross Lockart la mission impossible di sospendere la vita per poi riprenderla dopo molti anni ricorrendo alla tecnica della criogenesi. Nel libro successivo, la fine del mondo si prefigura come un silenzioso black out che piomba senza preavviso su New York durante il Supebowl. Cormac McCarthy, che appartiene alla stessa generazione di DeLillo, sonda l’ignoto scrivendo due romanzi (Il Passeggero e Stella Maris) dal sapore molto delilliano. L’ultima frontiera di McCarthy non ha niente a che vedere con i deserti del New Mexico e del Texas: in Stella Maris le lunghe cavalcate di John Grady col suo socio Racey Lawlins e la romantica caccia alla lupa lasciano il posto a una fitta rete di dissertazioni filosofiche che vedono impegnata una ventenne dottoranda in matematica dal QI non testabile e il suo psichiatra. Alicia Western, questo è il nome della ragazza, è affetta da anoressia e da una grave forma di schizofrenia paranoide. Le sue allucinazioni, visive e uditive, hanno riempito le parti in corsivo dell’altro romanzo (Il Passeggero), che si apre proprio con la morte della ragazza per suicidio. È il 1972, in Vietnam si combatte senza sosta e gli strascichi della seconda guerra mondiale, almeno nella famiglia Western, non smettono di farsi sentire per le ragioni che spiegherò più avanti. 

Breve premessa: quando si recensicono libri attesi da molti anni, scritti da monumenti della letteratura come Cormac McCarthy, si rischia di lasciarsi attrarre dalla forza centripeta dei condizionamenti, o di inciampare in invisibili forme di sudditanza che possono in vario modo falsarne il giudizio. Per quanto mi sarà possibile, proverò a scrollarmi di dosso ogni zavorra affettiva e a parlare del romanzo con il giusto e dovuto distacco. Ma non vi assicuro di riuscirci. 

Come ne La scopa del sistema di Wallace, uno degli attori non protagonisti di Stella Maris è il filosofo austriaco Wittgenstein, rifacendosi al quale McCarthy ritiene che una grossa parte del parlato abbia origine da contenuti fino a un attimo prima sconosciuti al nostro inconscio. Come si realizzi questo processo già affrontato per la verità qualche millennio prima da Gorgia di Leontini (Nulla esiste, e se anche esistesse non sarebbe comprensibile, e se anche fosse comprensibile non sarebbe comunicabile agli altri), McCarthy non ce lo dice, ma il rapporto tra la realtà e la sua possibile rappresentazione linguistica e conoscibilità oggettiva (in questo caso il richiamo è a Kant) è uno dei temi principali affrontati nel libro, la cui struttura tra l’altro somiglia a quella dei Oi Dialogoi di Platone (“Non sfuggirò mai a Platone” si legge a pag. 111). Si può dire la stessa cosa circa l’uso e la funzione della parola, per la musica? (Alicia è anche una virtuosa del violino “La prima volta che ho sentito Bach ho avuto un’esperienza extracorporea”). Parebbe di no, “La musica non è un linguaggio. Non allude a niente se non a se stessa”, per quanto essa preceda le parole e prescinda perfino dall’umanità “Schopenhauer dice che se l’intero universo svanisse l’unica cosa che rimarrebbe sarebbe la musica”. Come spiegavo all’inizio, però, il vero centro di gravità (non più permanente) della fragile esistenza di Alicia, è la matematica, e la conversazione tra lei e il dott. Cohen, lo psichiatra che registra tutto, parola per parola, ne investe le più svariate applicazioni. A un certo punto della non-storia, le vicende personali di Alicia si sovrappongono a quelle del padre di lei e al suo rapporto professionale con Oppenheimer (il padre di Alicia faceva parte del gruppo di scienziati che ha lavorato sulla bomba che è stata sganciata a Hiroshima), da qui il mio richiamo precedente agli strascichi della seconda guerra mondiale. La questione paterna, già affrontata ne Il Passeggero, in Stella Maris viene sviscerata in una dimensione più intima, più umana. Tutto in Stella Maris è più intimo e doloroso, a cominciare dal contesto in cui è collocato il dialogo che compone il libro: la camera di un ospedale psichiatrico. La discussione o seduta psicoanalitica di Alicia è come l’estuario di un fiume, nella seconda parte diventa incontenibile e in alcuni passaggi di difficile comprensione per i numerosi rimandi filosofici. Cohen e Alicia si provocano a vicenda, l’uno diventa spalla dell’altro e la naturalezza del confronto-ascolto non è scontato. Negli Stati Uniti i due romanzi sono stati pubblicati insieme, in Italia a distanza di qualche mese l’uno dall’altro: prima Il Passeggero poi Stella Maris (la traduzione è di Maurizia Balmelli). Siamo sicuri che l’ordine giusto non sarebbe stato quello inverso? Io le due parti le avrei perfino accorpate in un unico romanzo e ridotto di una trentina di pagine almeno il dialogo di Alicia, che delle due è indubbiamente la più interessante. Stella Maris è un libro cerebrale, colto, la sintesi perfetta tra il lirismo barocco di Suttree e il minimalismo apocalittico de La Strada. A qualcuno forse non scalderà il cuore ma ne sentiremo parlare a lungo. 

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