Finalmente è arrivata in Italia la nuova, straordinaria raccolta di storie di Rick Bass, lo scrittore che Newsweek ha definito “un classico americano” e che ha pubblicato racconti fin dagli anni ’80 nelle migliori riviste americane come The Atlantic, Esquire, The New Yorker, GQ e The Paris Review.
Di Bass nel 2021, Mattioli 1885 ha pubblicato Cane da petrolio, una selezione dei suoi migliori racconti, e dal 6 ottobre sarà disponibile in libreria La vita delle rocce (Mattioli 1885, 2023, pp. 304, € 19), tradotto da Silvia Lumaca.
Le storie di Rick Bass sembrano iniezioni di aria fresca di montagna, anche quando sono ambientate in Texas (dove è nato e cresciuto), in Mississippi (dove ha lavorato) o nella Yaak Valley del Montana, dove vive da tre decenni. Basta sfogliare una storia di Rick Bass per scoprire un’artigianalità pacata di uomini e donne che lavorano e affrontano le sfide più antiche, come l’amore, il rispetto di sé, la raccolta di legna da ardere o la preparazione della carne di cervo, in contesti rurali spesso suggestivi.
A volte, queste persone guidavano fino al fiume, evocando immagini simili a quelle delle canzoni di Springsteen: “Quando raggiungevano dei banchi di sabbia bianca erosi dal sole – vicino a pozze profonde e scure dietro l’ansa di una qualsiasi città o di una qualsiasi strada, all’ombra di querce torreggianti – tiravano in secco la canoa e si sdraiavano su dei teli come tartarughe che si crogiolano al sole, nudi e sudati, luccicanti nella luce, bevendo del vino e alzandosi di tanto in tanto per correre giù al fiume a tuffarsi, per purificarsi dall’olio solare e dai granelli di sabbia, dal luccichio della pelle dopo il sesso.”
In tutte le storie, c’è la sensazione di poter imparare qualcosa di nuovo, come ad esempio come preparare un alce nel caso in cui ne cacciassimo uno: “E adesso lo scheletro, con le sue ossa sbiancate che cominciavano a vedersi, non sembrava quasi più quello di un alce, nemmeno un animale, e i due fratelli avevano cominciato a lavorare sul collo, e sui filetti, e il girello e il capocollo. Mentre loro separavano e poi trinciavano e macellavano quelli, Jyl lavorava con il suo coltello personale fino a ricavare delle strisce di carne in mezzo a ogni osso della gabbia toracica.”
Da tempo considerato uno dei più dotati interpreti del racconto breve, Rick Bass eccelle nella sua capacità di cogliere e rappresentare le verità durevoli del cuore umano. Queste pagine rivelano uomini e donne che vivono con passione e tenerezza ai limiti estremi dei sensi, ognuno dei quali cerca di trionfare contro il destino.
Bass offre un’analisi acuta della complessità degli intrecci familiari e sentimentali, e il suo linguaggio suggestivo ci coinvolge nelle vite dei personaggi.
Le storie intricate, raccolte in La vita delle rocce, sono ricche di magia, meraviglia e empatia, e hanno il potere sia di devastare, sia di sollevare, con la maestria di uno scrittore americano al suo apice.
Carlo Tortarolo
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Cavalli selvaggi
Karen aveva ventisei anni. Era stata fidanzata due volte, sposata una. Suo marito era scappato con un’altra donna dopo appena sei mesi. Quando ci pensava, anche se non accadeva spesso, si innervosiva ancora.
Il secondo uomo era quello che aveva amato di più, più di tutti gli altri. Con lui si era fidanzata, ma non lo aveva sposato. Si chiamava Henry. Era annegato nel Mississippi il giorno prima del matrimonio. Non avevano neppure trovato il corpo. Aveva una lapide al cimitero, ma era un falso. Per tutta la sua vita Karen aveva sentito storie su fidanzati che morivano il giorno prima del matrimonio, e poi era capitato a lei.
Henry e alcuni suoi amici, incluso il suo migliore amico, Sydney Bean, erano seduti sul viadotto che correva lontano, oltre il fiume, sopra l’immensa distesa di fango. Louisiana e alberi da una parte; Mississippi e alberi, e qualche fattoria, dall’altra.
La luna era piena e non c’era vento, e loro erano seduti forse a una trentina di metri al di sopra dell’acqua, ridendo e bevendo degli Psychos che arrivavano dal Daiquiri World giù a Delta, Louisiana. Gli Psychos erano cocktail di rum e Coca-Cola, e svariati succhi di frutta, con del colorante blu per alimenti. Te li servivano in bicchieri di polistirolo grandi quanto un piccolo cestino dell’immondizia, così grossi che dovevi tenerli con due mani. Sydney se n’era bevuti due; Henry tre.
Henry si era alzato in piedi, si era battuto il petto come Tarzan, aveva urlato qualcosa e poi si era tuffato. Ci aveva impiegato un’eternità a raggiungere l’acqua. La luce della luna permetteva una buona visuale, e loro avevano potuto osservarlo lungo tutta la discesa.
A volte Sydney Bean passava ancora a trovare Karen. Sydney era gentile e triste, aveva la sua stessa età, e lavorava nella fattoria di famiglia, appena fuori Utica, a est, dove domava e a volte allenava cavalli.
Una volta al mese – alla fine di ogni mese – Sydney si fermava a dormire alla fattoria di Karen, e insieme entravano nel suo grande armadio vuoto, e lui si lasciava picchiare da lei: lo colpiva con i suoi pugni, gli dava dei calci, lo metteva in ginocchio, gli schiaffeggiava la faccia, fino a fargli ronzare le orecchie e sanguinare il naso; ceffoni e botte fino a quando lei non scoppiava a piangere, i capelli scompigliati e gli occhi folli, e i palmi delle mani che le facevano troppo male per colpirlo ancora.
Il dolore e la rabbia di Karen crescevano fino a raggiungere il culmine; e poi, colpendo Sydney, si dissolvevano per un po’. Era un buon amico. Ma il problema era che dolore e rabbia tornavano sempre.
A volte Sydney cercava di aiutarla in altri modi. Le diceva che prima o poi avrebbe dovuto rendersi conto che Henry non sarebbe tornato, mai – in nessuna forma – ma di ricordare quello che lei e Henry avevano condiviso, per impedire che quelle sensazioni andassero via.
Sydney rimaneva lì in piedi, dentro l’armadio, e lasciava che lei lo colpisse. Ma le regole erano rigide: doveva tenere la bocca chiusa. Non permetteva che lei lo insultasse mentre lo colpiva.
Anche se lei lo voleva.
Dopo, quando era finita, e lei stava piangendo, più esausta di come si era sentita dopo l’ultima volta, singhiozzante, Sydney la aiutava ad alzarsi. La portava in camera e le strofinava la fronte con un asciugamano fresco. Karen continuava a piangere a singhiozzi intermittenti, come quelli dei bimbi, e lui le spazzolava i capelli, le teneva la mano, a volte la abbracciava e le accarezzava la schiena mentre lei continuava a piangere.
Dai campi arrivavano i suoni della fattoria, e quando guardava fuori dalla finestra, le sembrava di scorgere il suo vicino di casa, il vecchio dottor Lynly, il veterinario, che guidava il suo malandato furgone blu, spostandosi lungo il bayou, attraverso gli alberi, con il suo cane, Buster, che gli correva appresso abbaiando, raggruppando le mucche per le vaccinazioni.
“Posso ancora sentire il dolore” diceva a volte a Sydney, quando lui andava a trovarla non per essere picchiato ma per cucinarle la cena, o per sedere nella veranda sul retro con lei, e guardare i campi.
Quando Karen diceva che sentiva ancora quel dolore Sydney annuiva, e si studiava le mani.
“Avrei potuto afferrarlo” diceva lui, e poi sollevava lo sguardo e fissava ancora i campi.
“Continuo a pensare che con gli anni avrò una seconda possibilità.”
Sydney scuoteva di nuovo la testa.
“Penso che avrei potuto afferrarlo” diceva.
“O avresti potuto tuffarti dietro di lui” diceva Karen.
“Forse avresti potuto tuffarti dopo di lui.”
La voce le si affievoliva, e il suo viso diventava esanime e stanco.
In queste occasioni, Sydney Bean voleva che i pestaggi diventassero settimanali, o persino giornalieri. Ma era anche vero che facevano male, quasi quanto la perdita del suo amico, e così non diceva niente. Gli sembrava di dovere ancora qualcosa a Henry. Non sapeva cosa.
A volte, quando era in ginocchio e Karen gli stava dando dei calci, o delle gomitate, gli sembrava di averlo quasi capito – e si sentiva quasi incazzato con Karen – ma non riusciva mai ad afferrare la concretezza della cosa, solo la sensazione. Voleva sapere cosa gli doveva, così da poter andare avanti.
Se fossero stati nella sua fattoria le bestie sarebbero state libere nei campi e si sarebbero disperse, separate l’una dall’altra, e avrebbero muggito per tutta la notte. Quel suono ricordava un dolce tuono notturno prima che arrivi la pioggia, e gli piaceva.
Allevava il bestiame, e domava i puledri che non erano stati mai montati prima, animali di uno o due anni, stalloni, giumente selvagge. Conosceva il suono degli zoccoli, e il diabolico scalciare e dimenarsi che cominciava quando non potevano più disarcionarlo, e quando cominciavano a fare così, sapeva di averli sconfitti. Si faceva pagare duecentocinquanta dollari a cavallo, e a volte ci metteva un mese per domarne uno.