Negli anni Novanta, il mondo del bodybuilding fu scosso da un’irruzione epica, portata dall’inesorabile Dorian Yates, un inglese dal passato oscuro e un futuro scintillante. La sua storia è raccontata nel libro di Stefano Gallerani Dorian Yates, Il potere dell’ombra, in libreria dal 20 ottobre (editrice 66thand2nd, 2023, pp. 128, € 15).
Stefano Gallerani, rinomato scrittore, critico letterario e autore televisivo, ha collaborato con diverse riviste ed è autore di opere quali Albacete (Lavieri, 2012) e A Buenos Aires con Borges (Giulio Perrone Editore, 2019).
Dopo l’epoca d’oro di Arnold Schwarzenegger e Frank Zane, Yates rappresentò una rivoluzione copernicana nel mondo del fitness. Il suo debutto sul prestigioso palcoscenico del Mr. Olympia nel 1991 lo vide classificarsi secondo dietro l’indiscusso campione americano, Lee Haney, una leggenda vivente. Tuttavia, l’anno successivo segnò l’inizio di un dominio incontrastato che si protrasse per sei incredibili anni. In termini sportivi, era un’era a sé stante.
Ma chi era davvero Dorian Yates? Come aveva costruito un corpo mai visto prima, distante anni luce dalle palestre glamour californiane? Nel mondo del bodybuilding, iniziarono a chiamarlo “The Shadow”, l’Ombra.
L’autore Stefano Gallerani svela i segreti nascosti dietro l’uomo che ha ridefinito il significato stesso di muscolosità. Ci conduce attraverso i primi passi di Yates tra manubri e bilancieri, rivela dettagli sulla sua adolescenza nei quartieri operai dell’Inghilterra thatcheriana e racconta persino del suo tempo trascorso dietro le sbarre nel carcere di Whatton.
Dorian Yates è descritto come il primo “Game changer” del culturismo: “Tradotto: quelli che cambiano le regole del gioco. Michael Jordan nel basket, Ronaldo «Il Fenomeno» nel calcio, Andre Agassi nel tennis, Chris Froome nel ciclismo. E, prima di loro, Julius «Doctor J» Erving, Johan Cruijff, Björn Borg, Eddy Merckx”.
Questa è una storia di disperazione e redenzione, un punto di svolta epocale tra gli albori del bodybuilding e l’evoluzione del culturismo come lo conosciamo oggi: “il culturismo è anche qualcosa di diverso da uno sport: è una disciplina. E uno stile di vita. Per questo non è né potrà mai essere popolare. Anche a livello amatoriale, non si esaurisce in un’oretta la mattina presto o la sera prima di cena”.
Il libro spazza via pregiudizi e superstizioni, aprendo per noi la camera dei segreti di questo straordinario mondo. Con un corpo che sfidava l’immaginazione e una volontà di ferro, Dorian Yates ha cambiato il gioco, dimostrando che i confini dell’arte sono sempre infiniti, persino quando si tratta di allenare i muscoli.
Carlo Tortarolo
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Ci sono storie che aspettano solo di essere raccontate. Spesso si limitano a starsene lì per anni, intatte e in attesa, pazienti, che arrivi il loro momento: quel misterioso e imprevedibile insieme di circostanze che le porti, finalmente, in primo piano. A questo punto serve solo qualcuno che le raccolga. La storia di Dorian Yates è una di queste storie. E quel qualcuno sono io. Come sia successo, è presto detto: poco tempo fa, tre ritratti – «tre spiriti», per dirla con i versi di Ezra Pound – «mi si fecero incontro / E mi trassero in disparte / In un luogo dove i rami d’ulivo / Giacevano spogli al suolo: / Pallida strage sotto una nebbia smagliante». Come fantasmi la cui memoria presente abbraccia il passato vissuto, le loro traiettorie hanno cominciato a intrecciarsi nella mia fantasia accavallandosi e allontanandosi per poi tornare, con un’esattezza che non poteva lasciarmi indifferente, a intersecarsi. Così ho cominciato a raccogliere materiali che riguardassero i protagonisti di quei tre ritratti, per esaminarli, ordinarli e lasciarli riposare mentre cercavo, nella poesia, conferma di quella che, da subito, mi era apparsa una metafora esatta e lampante… Poco tempo fa, insomma, ebbi l’idea di scrivere un breve saggio su tre atleti che ai miei occhi incarnavano il mito tragico di Achille: l’eroe dall’imperfetta immortalità e il campione sovrumano che Ettore, con tutto il suo fardello di terreni princìpi, non può né sconfiggere né comprendere; ma anche il semidio che, da solo, piange nel segreto della sua tenda schiacciato dal peso della sua epopea in vita e dal dolore del più vulnerabile dei sentimenti.
Questi atleti erano e sono, per me, atleti che al loro prima apparire sembravano – e forse si sentivano – inscalfibili, e perciò pareva 20 ignorassero che, al contrario, la loro eternità sarebbe stata decretata da un’imprevista e insospettabile fragilità. Questi atleti erano e sono il rugbista neozelandese Siona Tali Lomu, il calciatore brasiliano Ronaldo – quello vero, il Fenomeno, al secolo Luís Nazário de Lima – e il culturista americano Ronnie Coleman. E se il primo, per tutti Jonah, rappresentava per me l’incarnazione fisica dell’erede di Teti, il condottiero in maglia nera di quindici invincibili mirmidoni, il supereroe con un fatale punto debole (nel suo caso non il tallone, ma quei reni che lo hanno prematuramente strappato ai giochi e alla vita nel 2015), il Fenomeno che nella primavera del 2002, con indosso la maglia dell’Inter, piange davanti a un intero stadio lo scudetto perduto era l’Achille che nella tenda «piangeva con tutto il suo essere […] vittima / della parte che amava, / la parte mortale» (Louise Glück). Coleman, invece, con il suo record di otto vittorie di fila all’Olympia nell’èra dei mostri della massa muscolare e un presente condannato alle stampelle e a un deambulatore, lo interpretavo come l’Achille schiacciato dalle sue stesse gesta: il prodigio che per portare il culturismo al livello a cui lo ha spinto lui ha dovuto sacrificare sull’altare del suo culto lo stesso fisico che lo ha fondato, perché – è come se confessasse oggi quel signore quasi sessantenne che trascina in giro uno scheletro imploso – «questi macigni alzai finché potei / questi macigni amai fin che potei, / questi macigni, il mio fato. / Piagato dal mio suolo / e seviziato dalla mia camicia, / e condannato dalle mie divinità, / questi macigni» (Giorgos Seferis).
Ed è proprio facendo ricerche su Coleman che, anni dopo il mio primo «incontro» con lui, è spuntata fuori dei registri sportivi quell’anomalia che risponde al nome di Dorian Yates, il campione che nell’albo d’oro del Mr Olympia precede proprio Coleman con una striscia di sei vittorie consecutive, dal 1992 al 1996. Come ho detto, mi era già capitato di incrociarlo, ma a quell’altezza la lampadina della mia curiosità non si era accesa per quell’inglese la cui pagina di Wikipedia non riportava che poche, scarne informazioni e i cui metodi di allenamento comparivano qua e là sulle riviste specializzate come fossero le istituzioni di una qualche legislazione speciale. Dopotutto, la mia passione per il culturismo è nata proprio nell’èra di Coleman e della sua rivalità con il biondo Jay Cutler, che di anno in anno con ferrea e stolida ostinazione provava a sottrarre lo scettro al re. Poi, quando si era trattato di dare a questa passione una profondità storica sono risalito, come chiunque, all’epoca d’oro di Schwarzenegger e Frank Zane, i più celebrati, i più famosi. Tra questi e l’Ercole nero di Arlington c’era, però, una lacuna che andava da Lee Haney a Yates, appunto. Quattordici Sandow in due e un giro di boa, quello dagli anni Ottanta ai Novanta, che si è rivelato decisivo per il bodybuilding. Adesso che però le nostre strade si intrecciavano di nuovo, qualcosa ha definitivamente catturato la mia attenzione. Per diversi motivi, nel corso del tempo lo sport praticato e quello raccontato hanno attirato gran parte dei miei interessi con un duplice effetto: da un lato ho sviluppato una sofferenza istintiva per la retorica che gronda tra le frasi di chi scrive di sport con l’entusiasmo del neofita e la supponenza dell’intellettuale, mentre dall’altro non ho mai smesso di credere che sia possibile rendere al meglio, con le parole, ciò che mi appare cristallino; ovvero che nel fatto sportivo quello che conta è la sua paradossale obiettività.