Cinque le notti e quattro i giorni. In questa “bolla temporale”, aperta e chiusa dal buio della notte, si sviluppa l’ultimo romanzo della siciliana Beatrice Monroy licenziato per Giulio Perrone editore.
Nel titolo, Notte, giorno, notte, l’autrice ha inserito un sipario simbolico per uno scenario offerto dalla città di Palermo e riempito dalle voci due protagoniste.
Monroy non cita mai apertamente la sua città e la sua regione, ne crea invece un doppio quasi mitico e, al contempo, di grande concretezza.
Nello spazio delle pagine, la Storia marchia a fuoco i personaggi. Li lega a vicende che dal dopoguerra arrivano ai giorni nostri. C’è quanto necessita per comprendere il legame fra mafia e alcuni pezzi della società e della politica.
E quando racconta della fondazione di una città “nuova”, vicina a una città “vecchia” lasciata in rovina, pronta ad accogliere i nuovi assunti negli uffici regionali provenienti un po’ da ovunque, basta poco per capire come la mafia si sia potuta allargare prendendosi tutto.
L’autrice però non costruisce un romanzo direttamente contro la mafia. Il suo intento è un altro, forse meno semplice da raggiungere.
Quello che troviamo dentro le pagine di Notte, giorno, notte si può descrivere come la stigmatizzazione di un modo di fare dai risvolti tragici. Il voltarsi dall’altra parte, l’affermare di non sapere, di non aver visto, è infatti un habitus che l’autrice assegna a parte della società siciliana. È qualcosa che viene indicato come una piaga endemica, quanto profondamente offensiva del vivere civile.
Monroy cita latamente il paesaggio di sangue e morti prodotto dalle grandi stragi di mafia del 1992. In poche righe sintetizza l’esplosione avvenuta in autostrada e, a seguire, quella avvenuta in città, «che ha fatto tremare i vetri». Niente nomi, nessuna coordinata. Il contesto dentro cui si muove la storia è chiaro già così, anche se lo si racconta dall’estate del 1993. Da lì non c’è stata vera rinascita, pare dirci, ma un continuare allo stesso modo di sempre: togliere lo sguardo, tacere.
Non è un male fisico quello di cui parla l’autrice. Perché “loro”, i mafiosi, che «avevano aiutato gli americani» e sono entrati nelle città liberate sui carri armati alleati con addosso già «l’aria da padroni», hanno prodotto qualcosa di più pernicioso.
La loro presenza sul territorio, il loro agire sostituendosi alla legge, ha dato luogo a quanto detto sopra: un male più interiore, che potremmo definire psichico. Investe tutti, questo male, sia chi non accetta di voltarsi dall’altra parte, sia chi vive l’omertà come regola di vita, sia chi si culla nell’illusione di non aver nulla a che vedere con quanto accade attorno.
I segni sono visibili nelle protagoniste principali. Chiaramente in Carla, apparentemente meno in Matilde, voce narrante del romanzo. Ne sono portatori anche Federico e Roberto, i rispettivi mariti.
Quindi, ricapitolando: Palermo, 1993, estate. Per chi conosce la città, sa come il caldo estivo letteralmente non faccia dormire. Per questo, durante la notte, Matilde cerca refrigerio sulla terrazza del suo appartamento, che è contiguo a quello della sua vecchia amica Carla.
Sono due vite completamente diverse, le loro. Matilde ha un marito ingegnere e un figlio, Carla è devastata dalla morte del padre avvenuta quando era piccola. Su unico, relativo sostegno, il marito Roberto.
Carla è ossessionata dal bisogno di verità, un bisogno insopprimibile che la porta a ripetere al marito pezzi di una storia atroce, frammista ad altro, a pettegolezzi, ad affermazioni pare senza sostegno di prove. Roberto la blandisce, la rimprovera, cerca di tamponare come può la disperazione della moglie.
Dalla sua sdraio, Matilde può sentire le due voci. I loro racconti la portano a rivivere momenti che si era volontariamente lasciata dietro, in cui non ha più voluto scavare. Si è negata alla verità ed ecco che se la ritrova, amplificata, attraverso quelle parole.
Dicevamo dell’“effetto sipario” suggerito dal titolo. In realtà è il luogo in cui si svolge buona parte del romanzo a regalare alla storia una forte impronta teatrale.
La terrazza notturna è un palcoscenico perfetto su cui la verità dettata dalle voci e dai corpi può essere sciorinata per intero. Sia quella che ha legato le esistenze delle protagoniste nel passato, sia quella sorprendente e nascosta che le collega nell’adesso.
La terrazza palcoscenico delle parole schiaffeggia Matilde con una serie di verità, che da sempre riempiono Carla di dolore. Matilde ha così finalmente coscienza di quali siano state e di cosa continuino a essere le sue scelte, quale normalità fittizia abbia cercato di tutelare a detrimento della realtà.
Dalla sedia che detta rumorosamente col suo tric trac i tempi del racconto notte dopo notte, Matilde si fa voce di coloro che negano, che si voltano appunto dall’altra parte. Diventa il simbolo di una vigliaccheria che non trova rimedi per se stessa.
Se le affermazioni tragiche di Carla sono il pretesto, quanto Matilde rappresenta con le sue parole è una società che si lega al male nella speranza di non subirlo.
È qui che la città “nuova” acquista il suo ruolo specifico. Tirata su velocemente, ha irretito molte persone con la promessa di un lavoro impiegatizio. Ma il suo accogliere padri che avevano «fretta di essere altra cosa, di essere cittadini», di diventare colletti bianchi e allontanarsi dalla fatica dei campi come dalla vecchia malavita, era il modo per renderli indifferenti al male.
I grattacieli che la compongono, con il loro apparente innalzarsi al di sopra delle miserie umane, non allontanano quindi dal male, anzi.
Si portano dietro la città vecchia, quelle «i palazzi sono costruiti in pietra di tufo», si portano dietro quello che potremmo definire un vizio di forma. I suoi spazi sono spazi chiusi, costrittivi al pari dei precedenti.
Non si accosteranno più gli scuri per non vedere, però quel gesto resterà come introiettato, più ambiguo e, per quanto riguarda le coscienze, mortale.
Sergio Rotino
Recensione al libro Notte, giorno, notte di Beatrice Monroy, Giulio Perrone editore 2023, pagg. 145, € 18.00