La prima volta che l’ho conosciuto era sulle pagine di El Palomar, racconto tradotto da Raul Schenardi, che in Italia è pubblicato dalle edizioni Arcoiris. L’impressione che avevo avuto, era quella di uno scultore di lava, ovvero di uno scrittore capace di dare forma alla materia rovente che arriva dalla strada. El Palomar è una storia senza consolazione, dove tutto quello che di grandioso può accadere, è già accaduto. I suoi personaggi: il Maglietta, il Pisello, lo Smilzo, ripercorrono le gesta passate, le grandi avventure, le partite più belle, i cori meglio riusciti, le grandi abbuffate di carne, di vino e di adrenalina. Quella che racconta Francisco è una storia dove vita, calcio e assurde ambizioni s’intrecciano in uno di quei nodi assassini che non si possono districare.
Loris Tassi è il curatore della collana Gli Eccentrici, dove per Arcoiris sceglie e spesso anche traduce libri bellissimi e, altrimenti, introvabili.
È a casa sua che ci incontriamo, al centro di Napoli, perché Francisco è in Italia per un giro di presentazioni e conferenze.
Credevo che avremmo camminato e quando entro dentro la casa di Loris, che è posta sopra la terrazza al quinto piano di un antico palazzo, mi sorprende trovare Francisco che si prepara il mate, versando acqua bollente in una tazza di legno. Sono timido e soffro d’ansia e cerco di rilassarmi e cadenzo il respiro, mentre mi siedo davanti a questo scrittore argentino con i capelli corti, intorno ai cinquant’anni, con il fisico del vecchio Puskás, che indossa una maglietta verde a maniche corte. Ha un piccolo tatuaggio sull’avambraccio destro e quando gli chiedo cosa significhi, mi dice che è un cuore in cui si fondono il dieci di Maradona e il ventidue del Gimnasia la Plata.
Sono i suoi due amori oltre la letteratura. Per capirci, ci aiuta Loris. Magallanes è una fontana aperta e a ogni domanda apre molteplici riflessioni.
Parliamo di calcio, perché siamo a Napoli e Maradona è qualcosa che ci unisce. Discutiamo di Bielsa, di Scaloni, di Maurizio Sarri, cercando di capire se viene prima il gioco o il risultato.
Così gli chiedo come si approccia al foglio e alle storie, se viene prima la trama o lo stile e lui risponde come avrebbe fatto Blanchot, o Bernhard, o Piglia, e dice lo stile, prima lo stile, la trama è una cosa in più. Racconta che scrive a penna la prima stesura e poi, quando ha il quadro completo, cerca di capire cosa manca.
Gli spiego che nel nostro paese, gli scrittori italiani non leggono gli italiani o se lo fanno, sembra che lo facciano di nascosto. Ho sempre avuto la sensazione che per loro non sia lo stesso è lui mi dice che è vero, ma esiste anche in Argentina una macro editoria che guarda con sospetto a tutti gli indipendenti. Mi dice che esiste un gruppo a cui lui sente di appartenere in quanto scrittore e editore, un gruppo di cui fa parte anche Luppino e gli stranieri Bellatin e Felipe Polleri. Dice che sono un gruppo fantasma e questa espressione mi rimane, mi rimarrà per sempre.
È esistita una rottura, ci spiega, tra gli anni sessanta e ottanta, con la tradizione. Borges era stato estremamente ingombrante, fino a quel momento e dopo, la generazione di Piglia, aveva sentito la necessità di ucciderlo.
Adesso, ci spiega, abbiamo un rapporto più disteso con il passato anche se dentro i nostri gruppi di scrittura creativa cerchiamo d’invogliare i partecipanti a non assomigliare a nessuno.
Francisco racconta che anche in Argentina si legge sempre meno, che fa l’editore da dieci anni e purtroppo molte cose stanno cambiando. Dice che la “malaeconomia” è un fattore, anche se non è l’unico. Il valore del peso, ci spiega, cambia quasi ogni giorno per via dell’inflazione.
Trascinati da questo discorso gli chiedo delle elezioni governative in corso e non resisto alla domanda su Javier Milei che in Italia viene raccontato come un folle anarco-capitalista che va in giro con una motosega e che parla con i suoi cani, quelli vivi e quello morto.
Magallanes sorride quando gli chiedo se tutto questo è vero o se siamo noi europei che amiamo raccontare i Sudamericani come un popolo di pazzi.
Milei è proprio così, conferma, è un outsider, un ribelle. Io e Loris ci chiediamo cosa avremmo pensato, noi italiani, di un candidato premier che sostiene di parlare con i cani e quando lui mi ricorda che Berlusconi si definiva l’unto del signore, io cerco di convincerlo che non sia la stessa cosa anche se forse lo è.
Del resto, dice Francisco, Milei assomiglia a Trump perché parla alla gente e dice loro quello che vogliono sentire, però ci invita anche a considerarlo come un fenomeno tipicamente argentino, che ha senso solo dentro un contesto sociale abituato a certe eccentricità. La parola che lui usa per spiegare il popolo argentino è “Surrealista” e io chiedo a Loris se devo intenderla come surreale, ma poi Francisco usa le parole “onirico” e “grottesco” e capisco che l’espressione scelta non necessita di nessuna traduzione.
Gli chiedo se trova Milei spaventoso e lui dice di sì. Sono peronista, afferma, anche se non è facile spiegare precisamente cosa significhi peronista a noi che non l’abbiamo vissuto.
Ci lasciamo che io sono ancora rigido come se fossi appena uscito da acque profonde e molto fredde. Ringrazio Loris per aver reso possibile questo incontro e per tutti i libri che traduce e che mi regala e lo vorrei abbracciare ma non lo faccio, per fortuna.
Sul treno per tornare a casa apro la copia di El Palomar che avevo pòrto a Magallanes con una penna e quando leggo:
A Pierangelo
Porque ganar en la escritura
nunca es un cálculo…
Penso che per la vita sia lo stesso, e chi lo crede è triste come la Juve.
Pierangelo Consoli