Arianna Galli è la scrittrice italiana che manca.
Malgrado sia giovanissima, nota sino ad oggi per le sue poesie, in questo racconto inedito – il primo che pubblica- dimostra come scrivere non sia solo raccontare ma una necessità, una urgenza. Dimostra come un racconto possa dire di più di cento pagine. Non c’è una parola una riga una virgola che non sia necessaria:
Sembra un film neorealista e al contempo il dipinto d’inchiostro di un espressionista.
Lo leggiamo e siamo subito nella storia: quella più raccontata, la seconda guerra mondiale, le città occupate, le deportazioni.
In tanti ci ricordano di non perdere la memoria ma i libri ci appaiono di esperienze lontane appunto perché ricordate.
Arianna Galli racconta tutto questo come se fosse presente: ha una scrittura che ci fa dimenticare il tempo perché riesce a descrivere la quotidianità attraverso la amicizia che nasce dalla cultura. È tutto diventa normale, la forza dell’amore per la tragedia greca fa dimenticare quella che stanno vivendo i protagonisti. Tutto diventa lontano perché la cultura vince su tutto, anche sull’orrore quotidiano. Ed è come se l’autrice ci volesse dire che l’orrore è così da sempre. Non ne esiste uno maggiore e uno peggiore.
Che il Male e il Bene nascono da noi: e dipende da noi ricordare quale.
Gian Paolo Serino
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IL CORAGGIO DI SCEGLIERE
di Arianna Galli
C’è un detto tedesco: “Im schlechten Kleide wohnt oft Weisheit”, “Spesso in abiti miseri ha dimora la saggezza”.
Eppure, non è misera quella casa di sapere bianca che nella piazza sembra come un essere con due braccia che si protendono in avanti, di fronte ai suoi occhi. Andreas la guarda, lei, l’università Humboldt, che lo afferra in un abbraccio che si può percepire solo interiormente e il suo occhio percorre velocemente le lesene, le colonne, le statue nere in cima all’edificio centrale e le due statue di un candore abbagliante in quella giornata di sole che stanno nel cortile, una con un libro in mano, come per passare il tempo invece che annoiarsi ad osservare eternamente i berlinesi che le passano ogni giorno davanti, l’altra seduta sul globo, forse un po’ scomoda in quella posizione, che contempla il mondo di fronte a sé con aria corrucciata.
Andreas si avvicina lentamente come in una marcia funebre. È l’ultima volta, pensa, che l’avrebbe vista.
Quell’enorme vastità di bianco dal sapore di antico, del passato, gli è sempre sembrata fino a quel momento l’immagine perfetta, nella sua fisica pesantezza, della leggerezza metafisica in Terra. Ma ora non è più così. Basta staccare gli occhi da lei e incontrare gli sguardi dei passanti, di quelli che lo conoscono o meglio pensano di farlo, e percepisce tutta la pesantezza dell’universo sulle spalle. Quelle occhiate sembravano dire “ebreo”.
“Andreas!”. Si volta: Franz lo abbraccia con la sua usuale calorosa eleganza. Dietro di lui, sua moglie Margareta cammina verso di loro a piccoli passi, e piano a piano si scorgono i suoi occhi verde smeraldo, timidi e profondi, rivolti ad Andreas.
“Andiamo: è tardi”.
***
Berlino, 11 novembre 1938
Oscurità… oscurità e colore.
Le immagini sono confuse, come immerse in acqua, come disegni ad acquarello. Una voce profonda, di uomo, pronuncia frasi in una lingua strana, sconosciuta, ma musicale e bellissima, come un canto rituale. Poi due donne, bendate da veli policromi, di cui non riesce a vedere il viso, ma solo i corpi, rivelati dalla seta leggera delle loro tuniche, emergono dalle tenebre e sussurrano le loro voci nascoste.
– Hai un cuore che brucia per cose di ghiaccio –
– So di piacere a chi soprattutto devo –
– Se ci riuscirai… desideri le stelle… non conviene per prima cosa inseguire le stelle… –
Le parole gli sembrano ovattate, ormai lontane, come i sospiri di spiriti provenienti dal suo passato.
“Kurt, per favore, va a fare la fila per il … pane”
Kurt ritorna in sé, abbandonando i suoi pensieri. Chiude la porta di casa e scende per le scale, sino a giungere l’ingresso del suo palazzo, immerso nella semioscurità.
Si incammina per la via, sotto una cappa di nubi grigie. Grigio. Sì, il colore grigio può descrivere tutto della strada e tutto di quella che ora è Berlino. Il cielo, i volti per strada, gli abiti, le strade, gli edifici intrappolati in quella luce strana e forse anche i pensieri stessi, le parole dette quasi a fatica e con inerzia, i movimenti: sono tutti inesorabilmente grigi. Persino la musica: si sente lontana e malinconica, è grigia.
È come se Kurt indossasse lenti grige ad ogni passo: forse perché è novembre, forse perché deve essere novembre.
Eppure, l’anima di Kurt è molto più di quel grigio, frantumata come i cocci delle vetrine per terra. “La notte dei cristalli è ormai passata”, pensa, “ed è giusto che ci sia stata, è la legge, è il Reich”.
Questo pensiero lo perseguita tanto quanto il sogno a cui aveva ripensato pochi attimi prima. È da Hegel che il mondo lo sa: lo Spirito, quel grande Spirito che dà il senso al mondo e da cui tutto viene, sulla Terra prende la forma dello Stato. E il cittadino, l’uomo che cosa dovrebbe fare se non sottostare allo Spirito e all’autorità? Lo Stato è tutti noi, ogni uomo che vive in Lui è una sua parte e non importa se non capisce che cosa stia facendo: c’è un progetto più ampio che il singolo non può capire e che quindi non deve neanche provare a comprendere.
Basta. Se lo Stato lo fa, è perché è giusto che sia così.
“Hans”
Kurt afferra l’ex compagno di scuola per un braccio.
“Cosa che ci fai per strada?”
“Spesa”
“Sigaretta?”
“Sì, grazie”
Accende la sigaretta: il sapore di tabacco gli penetra dentro e crea nuvole di fumo bianche, con quel suo modo elegante con cui incantava tutte le ragazze davanti alla scuola, anni fa, quando non c’era ancora la crisi. Hans gli soffia addosso e iniziano a tossire e a ridere e a fumare ancora, come se intorno non ci fosse niente.
***
Berlino, 15 marzo 1930
Margareta ora è vicinissima ad entrambi.
Andreas le avrebbe voluto chiedere se aveva letto la sua ultima lettera, la numero quattrocentonovantadue, ormai da due anni si scrivono.
Percorre con lo sguardo il suo volto e poi le mani, con i guanti appena sfilati, e poi ritorna a Franz e alla sua università. Quanti ricordi!
“Sei l’unico ebreo al mondo che sa meglio il greco e le storie di quegli antichi dei dell’ebraico e la Torah” gli diceva sempre Franz ridendo quando lui era ancora studente all’università.
Probabilmente se gli chiedessero quale sia la sua origine, lui risponderebbe: “greca”. Gli antichi greci avevano capito ogni cosa del mondo e avevano cercato di dipingere quella realtà – incomprensibile a tutti gli altri uomini dopo di loro – nelle loro opere, nelle poesie, nelle tragedie. E la cosa assurda e meravigliosa che Andreas trova nelle tragedie, è che ogni storia avesse già un finale che si conosce fin dall’inizio. Infatti i miti alla base della trama erano noti a tutti, eppure i personaggi intrappolati in quella storia, fino alla fine, combattevano per vivere, anche se destinati a morire, sceglievano – o credevano di farlo – , nonostante non ci fosse scelta. E ogni giorno di quegli ultimi anni, si era immerso in quei testi all’università di Humboldt e in quei testi aveva vissuto tutto: i primi amori, la laurea, il dottorato, l’insegnare al liceo ad anime grigie sino a farle vibrare di vita, e poi la speranza e l’attesa di quella cattedra che non sarebbe arrivata mai: perché è ebreo.
“Come sarà l’America?”
“Non lo so, ma sarà un luogo dove avrò più colori per dipingere”
Andreas ricorda l’ultimo quadro che ha visto nel suo studio: c’erano pochi colori, e uomini danzanti nel cielo. Franz non fa altro che dipingere, da sempre, raffigurando una realtà interiore, enigmatica. Nella sua grande casa spaziosa, bellissima, il suo studio con dentro tutti i suoi pennelli e le tele in disordine, contrasta con tutto il resto, in ordine assoluto. E Andreas sa che per lui, nonostante lo sfarzo del resto della casa e della sua vita piena di feste e incontri, quel piccolo studio è sempre stato un paradiso in terra. Ma ora non c’è più spazio neanche per quel paradiso: come nei suoi quadri non ci fosse spazio per i colori, ormai pochissimi.
Sarebbero partiti.
È già tardi, pensa: il mondo glielo urlano, le occhiate glielo ordinano, silenziosamente. E con la valigia in una mano e l’Antigone nell’altra si mette in cammino insieme a Franz e a Margareta, in cammino verso dove? Verso che terra promessa?
***
Berlino, 11 novembre 1938
“Te lo ricordi il falò dei libri?”
“Come potrei dimenticarmelo, Hans”, dice Kurt.
Come scrollarsi dalla testa l’immagine di quella carta che si accartocciava nelle fiamme come foglie riarse. Ma non bruciavano solo pagine, bruciavano le anime degli uomini imprigionate là dentro. Avrebbero finito per bruciare gli uomini?
Intanto nella via un soldato spinge in fila degli ebrei. Hanno la faccia stravolta, alcuni con lo sguardo atterrito, altri con lo sguardo vuoto, altri ancora alla ricerca di un punto di riferimento, di una terra ferma in quel mare, dove stanno navigando, in una terra ormai non più loro, ma straniera, come fossero migranti senza patria, vagando nel deserto verso una terra che non sanno.
Ma loro cosa possono farci?
È lo Stato, lo Stato è lo Spirito, lo Stato siamo noi, anzi noi siamo briciole dello Stato, pensa Kurt, non siamo niente o siamo lui stesso. E sarebbe giusto opporsi alla Legge? La Legge è la Giustizia per definizione. È giusto che sia maltrattato l’ebreo, avrà fatto qualcosa se è punito. Tutto ciò poi non lo riguarda: lui sta fumando la sigaretta, loro stanno procedendo per la strada, sono due mondi diversi, separati e la sfera della giustizia non lo riguarda, lui deve pensare alla vita economica e sociale, come ogni cittadino.
È così, pensa Kurt.
– Tu di vivere hai scelto, io di morire –
– Non è che non t’ho detto le mie ragioni –
– Le tue ragioni sono valide per alcuni, le mie per altri, Ismene –
– Eppure di noi due identica è la colpa ...–
E intanto nella mente di Kurt sono immagini, oscurità, colore…
Ritorna a casa sua. Lascia la borsa in cucina, entra nella sua stanza. Con il dito, ripercorre i
libri disposti lungo gli scaffali, come alla ricerca di qualcosa. L’Antigone! L’Antigone ricerca inconsciamente, quell’Antigone che popola i suoi sogni. Prende in mano il libro, lo sfoglia e sfoglia anche il suo passato: il professore di Lettere al liceo, l’Antigone letta in classe, la sua voce profonda che lo legge in greco, la sua passione nel spiegarla, nel parlare del coraggio. Licenziato, l’Antigone a metà, non l’ha mai finita di leggere.
Si precipita nella strada. Un gruppo di ebrei è sotto casa sua. Un soldato spinge a terra un vecchio. La sua risata.
Cos’è l’umano? Cos’è lui? Un essere in mezzo al mare della vita? Ha un’Itaca? Ha scelto la sua Itaca? Ha scelto chi è lui stesso mai veramente? È cos’è giusto? La legge o l’umano? E quello Spirito, quello Spirito di Hegel cos’è rispetto a lui singolo? Un essere vuoto e privo di significato rispetto a lui che fino a quel momento ha vagato senza meta, senza fare per una volta una scelta.
Prende la pistola dalla cintura del soldato. Uno sparo. Urla agli ebrei di scappare. Un altro sparo. Kurt cade a terra, vicino a un fiore: la libertà.
***
Berlino, 15 marzo 1930
Andreas guarda la sua Antigone, guarda le persone attorno a lui nella stazione: vede uomini vuoti, chi si sistema il capello, chi va avanti, cammina, senza un sorriso, senza vita nei movimenti: esistono senza vivere veramente. Non ci sono i greci: no, non c’è vita, non c’è lotta per questa vita che non avrà un senso finché decideremo di darglielo.
Dove sto andando? Perché devo andare? Forse, perché me lo dice il mondo? Cosa ci farò là? Cosa devo portare là, che hanno la libertà, l’arte, che sanno che un ebreo è un umano come gli altri?
Franz e Margareta salgono sul treno.
Si sente per un istante ancora l’universo intero sulle spalle. Non è sua la decisione, non sta decidendo lui, stanno decidendo gli altri.
E dove sta andando? Neanche Franz sa com’è questa terra promessa. Il mondo gli appare d’un tratto per quello che è veramente: un mare in cui tutti gli uomini vagano alla ricerca di qualcosa. E qual è la sua Itaca? Forse riportare i Greci tra gli uomini, riportare in vita quei miti, quegli enigmi, che contengono cifrata la realtà. Può ancora far qualcosa, può ancora insegnarlo ai ragazzi, che a piano a piano cedevano e si facevano sedurre dalle storie che raccontava.
Bacia Margareta, per la prima e l’ultima volta e scende dal treno, osservando davanti a lui le linee rapide e deformata dei vagoni che corrono con ferocia sui binari, sentendosi per la prima volta un personaggio da tragedia che sa già come finirà la storia ma che combatte fino alla fine, avendo il coraggio di scegliere come vivere la parte che gli rimane da recitare, inventando, improvvisando nuove battute, nuovi percorsi. Perché ogni addio, anche quello alla vita, sarebbe stato come l’ultimo incontro di Ettore e Andromaca, un solenne sacrificio per le cose amate e per assaporare in ultimo, intensamente, la libertà.