Come per altri scrittori di culto, esistono due versioni di David Foster Wallace: una reale, che si manifesta attraverso le opere che l’autore di Ithaca (NY) ci ha lasciato nei suoi vent’anni di carriera o poco meno (romanzi, racconti, saggi, reportage, interviste); un’altra virtuale, il cosiddetto intellettualismo di Wallace, frutto di una massiccia iconografia alimentata da analisi critiche, studi, rielaborazioni, osservazioni di addetti ai lavori o di semplici lettori, così inspessita e stratificata da poggiare su giudizi altrui più che su opinioni personali. Wallace è un autore più citato che letto, e i suoi libri spesso vengono mostrati anziché aperti perché fa figo, per accreditarsi nei circuiti culturali che contano o in certe bolle social. Non ho mai creduto ai libri che ci cambiano la vita. Non esistono. Esistono piuttosto degli autori e dei libri che cambiano il nostro modo di leggere, che ci rendono lettori più esigenti, impenetrabili, refrattari alla solita narrativa di trama, mainstream, lineare, con tutto l’iceberg in bella mostra. Infinite Jest ha questo potere. Fu pubblicato negli Usa nel 1996, in Italia arrivò quattro anni più tardi sull’onda emotiva di Edoardo Nesi (poi traduttore del romanzo) e di Sandro Veronesi, che dopo averne sentito parlare in un tour negli States e non riuscendo a leggerlo in inglese, pretese di farlo tradurre in italiano dai suoi amici della Fandango.
In pratica sappiamo di Infinite Jest grazie al capriccio di due lettori eccellenti e fissati. Perché un romanzo di circa milletrecento pagine, molte delle quali occupate da centinaia di note – le note sono parte integrante del testo – continua a richiamare l’attenzione di tante persone compreso il sottoscritto? Avevo approcciato il mattone di Wallace due volte, l’ultima in prossimità del DFW Tribute che organizzai tre anni fa alla libreria Feltrinelli di Salerno. L’ho ripreso per la terza volta approfittando della sosta natalizia e di un vuoto di interessi che in un post semiserio su Facebook avevo definito come la condizione del lettore “assuefatto”, il terzo e ultimo stadio dopo quello dell’effetto acquario e del lettore consapevole. Non lo faccio per scelta. Come dicevo prima obbedisco a un richiamo, a una sirena odisseica che mi trascina in quello stato di dipendenza di cui sono piacevolmente vittime gli stessi personaggi del libro (Infinite Jest è anche un film introvabile che ipnotizza gli spettatori costringendoli a rivedere la pellicola di continuo, fino alla morte. Così pericoloso da trasformarsi in una possibile arma letale nelle mani di un particolarissimo commando terroristico). Rileggo Wallace perché “non esisteva scrittore vivente dotato di un virtuosismo retorico più autorevole, emozionante e inventivo del suo”, così ne parlava Jonathan Franzen in un saggio. Sarà l’ennesima traversata lunga ed estenuante, lo so, ma la difficoltà di Infinite Jest è parte stessa del fascino di Infinite Jest, romanzo imperniato sul linguaggio e sul significato della letteratura prima ancora che su una vera e propria trama. Del legame stretto tra Wallace e Ludvig Wittgenstein si è scritto tanto. Wittgenstein è il filosofo del linguaggio e della impossibilità di scindere la realtà dalla sua esposizione. La distanza tra pensiero e parola in Wallace è così breve che leggendo le sue storie abbiamo l’impressione di non trovarci fuori dal racconto ma dentro la mente di chi lo sta portando in scena. No, una sola volta non basta per comprendere il senso di tutto ed entrare pienamente nella dimensione wittgensteiniana dell’azione e della sua rappresentazione. Di leggere Infinite Jest non si smette mai.