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Yoshida Atsuhiro anteprima. Buonanotte Tōkyō

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Il segreto di un mago detective: “Alla base della prestidigitazione certo c’è un inganno e le risposte, nascoste con abilità, si trovano nel profondo di una complessa sovrapposizione di trucchi. Così la semplice verità, presa dal mondo della prestidigitazione, che “in ogni mistero c’è una soluzione”, era alla base delle sue deduzioni”.

La filosofia di un negoziante: “Cose che sono fabbricate con un qualche obiettivo… in particolare, ci sono numerosi oggetti fabbricati dall’uomo che sono definiti “strumenti”… e quando si rompono, si emancipano infine dall’uso degli esseri umani e diventano per la prima volta liberi”.

La vita di una ristoratrice: “Quando si svegliava era notte e quando riusciva a portare a termine gli impegni quotidiani che si erano accumulati, era già passata mezzanotte. Non riusciva mai a incontrarsi con gli amici cui teneva”.

È in libreria Buonanotte Tōkyō di Yoshida Atsuhiro, (Edizioni E/O 2024, pp. 208, € 17,50 con traduzione dal giapponese di Costantino Pes).

Yoshida Atsuhiro è nato a Tokyo nel 1962. Ha scritto più di quaranta romanzi e tra le sue opere più note ricordiamo Tsumujikaze shokudō no yoru (Una notte al ristorante Turbine, 2002), il primo volume della Trilogia della città di Tsukifune, da cui è stato tratto un film nel 2009 per la regia di Shinohara Tetsuo.

L’astuto detective Shuro si avventura nei labirinti intricati del suo passato, mentre Eiko, una giovane provinciale alle prese con la sua prima avventura nel mondo cinematografico, si tuffa nell’arte del cinema. Nel frattempo, Matsui, il tassista notturno, insegue il ricordo di una donna misteriosa che ha attraversato la sua vettura blu. Kōichi, il rivenditore di giornali con una conoscenza approfondita dei corvi urbani, si intreccia nella storia insieme alla sua fidanzata riluttante, Mitsuki, fornitore di attrezzature per film. Tutti loro incarnano anime gentilmente occupate, pragmatiche e sognatrici, a volte eccentriche, impegnate in una continua ricerca del pezzo mancante che possa dare completezza alle loro esistenze.

Le loro vie si intrecciano nella Tokyo notturna contemporanea, una metropoli più dimessa e malinconica rispetto alla vibrante città di grattacieli degli anni ’80. Tuttavia, Tokyo mantiene la sua affascinante e enigmatica scenografia per questi personaggi inquieti e solitari, che si fondono in un romanzo dalle molteplici sfaccettature. Le piccole storie quotidiane, attraverso indagini, incontri casuali, riflessioni e dialoghi, si dipanano in atmosfere sospese e talvolta oniriche.

Nei personaggi emerge un sentimento di incompiutezza quasi ricercato: “L’idea di completezza le faceva paura oppure, d’altro canto, l’atto di completare qualcosa si faceva d’improvviso insignificante; perciò, finiva per arrestarsi a un passo dalla fine. “Il futuro? Voglio il più possibile che le cose restino come sono”.

Una narrativa visionaria per un viaggio affascinante che coinvolge il lettore e ne cattura l’attenzione nel comporre un intricato mosaico tra le mille luci di Tokio.

Carlo Tortarolo

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L’orologio batté l’una.

La pendola che Mitsuki teneva fra le braccia forse andava un po’ avanti, visto che segnò il tempo prima degli altri orologi nel magazzino.

Poco dopo, qua e là diversi suoni, uno grave e pesante, uno con un timbro secco, un altro con nitidezza, parvero fare a gara per annunciare l’una di notte.

Il magazzino era così grande da poter contenere comodamente due aeroplani di piccola taglia. Era pieno di innumerevoli scaffali e cassettiere mentre alle pareti era appesa, a parte gli orologi, una fitta sequenza di oggetti da esporre al muro, come dipinti, calendari e arazzi.

Sugli scaffali e nei cassetti era conservato qualunque tipo di minuteria che aveva caratterizzato vita e abitudini di questo paese negli ultimi trecento anni.

Bastava farsi un giro e si trovava praticamente di tutto.

Se, per esempio, il regista diceva: «Vorrei una valigia di quelle in uso in epoca Taishō1», questa andava trovata nel magazzino e prontamente recapitata prima delle riprese.

Attrezzisti”, così li chiamavano.

Era da cinque anni che Mitsuki lavorava come attrezzista in quella grande impresa cinematografica che si trovava alla periferia di Tōkyō.

Se lei ora teneva quella pendola tra le braccia, era perché doveva consegnarla in tempo per le riprese delle nove del mattino, insieme a diversi altri oggetti da reperire. Nel magazzino aveva trovato quasi tutto e, come tocco finale, era riuscita a rintracciare quella pendola, che corrispondeva in pieno alla richiesta del regista per «qualcosa di classico e austero». Era il momento di andare, orologio tra le braccia, in sala d’attesa, dove l’aspettava l’aiuto regista. La cosiddetta “sala d’attesa” non era il posto dove gli attori attendevano il momento di entrare in scena, ma una stanzetta dove veniva riposto il necessario per le riprese.

A dire il vero, a Mitsuki sarebbe piaciuto lavorare all’allestimento delle scenografie. Aspirava a fabbricare un grande set perfettamente realistico, in cui ricreare integralmente parte di una città di fantasia. Quando era stata assunta, però, alla prima visita agli studi cinematografici, appena aveva messo piede nel “magazzino dei materiali di scena” ne era rimasta subito affascinata.

Il magazzino era come una grande scatola stipata di ogni sorta di oggetti. Mitsuki era incantata da quel genere di cose fin da quando era bambina.

Le piacevano le scatole di medicinali. Sollevato il coperchio, apparivano confezioni e flaconcini su cui erano stampati marchi di mille colori e scritte minuscole. Bende, disinfettanti, colliri, cerotti, ostie… ognuno di quegli oggetti appariva speciale agli occhi della bambina.

L’incanto era lo stesso di allora, ma nel magazzino acquisiva dimensioni tali da strapparle un grido. Là il passato era affidato agli oggetti e preservato. Per Mitsuki quel magazzino di materiali di scena, pieno com’era di trecento anni di oggetti, era una sorta di scatola del tempo e quando ci si addentrava provava un senso di esaltazione, come se fosse diventata una piccola avventuriera. A questo si aggiungeva il gusto, simile a un gioco, di trovare gli oggetti che rispondevano alle richieste del regista.

C’era un solo problema: Mitsuki e tempo erano incompatibili. O, per meglio dire, i suoi tempi non erano in armonia con quello segnato dagli orologi, come la pendola che appunto teneva ora tra le braccia.

Per quanto si volesse porla con delicatezza, gli orologi le erano nemici. La ragione era chiara. Il suo orologio interiore, guidato dal suo temperamento tranquillo, era inconciliabile con gli orologi che lei così sentiva segnavano l’inquietudine del mondo. Perciò, la rigidità nelle scadenze indicate dal regista ogni tanto la metteva in difficoltà.

Doon… Un orologio da qualche parte batté ancora un rintocco.

Forse era quello che rimaneva indietro più di tutti in quel magazzino.

…Quell’orologio sono io!, sospirò Mitsuki aggiustandosi la pendola tra le braccia.

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