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Sergio Martini anteprima. Morire di presente

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Il senso della fine: “Sono quei respiri dispersi nell’angusta strettoia fra cuore e cervello, sono le sensazioni che precedono il sacrificio sull’altare della terra, un altare costruito con le colpe e i meriti che l’uomo ha saputo attribuirsi, perché i giudizi altrui sono stati divorati dall’attesa”.

Le lotte per la carriera in banca: “se ben ricordi: quante sere passate a leggere circolari e comunicazioni, quanti atteggiamenti di sfida verso il collega più qualificato, quanti scontri con la direzione per cambiare mansioni e responsabilità, quanti tentativi, anche molto evidenti, di rubare il pane agli altri.”

Le conclusioni di un pittore: “Il passato ha costruito una tela bellissima, durata tanti anni, ma i moderni hanno preferito l’isolamento e l’odio”.

È in libreria Morire di presente di Sergio Martini (Rossini Editore, pp. 186, € 14,99).

Sergio Martini, scrittore genovese, ha pubblicato numerosi articoli e saggi di economia finanziaria e sociale tra i quali: Nudo di banca. Management e sportello, due storie divergenti viste da vicino (Marcovalerio 2013); Espressioni e criticità del potere bancario (Cedam 2020). Sempre per Marcovalerio ha pubblicato la raccolta di racconti I giorni dell’uomo (2018).

Nella quotidianità tra un capo ufficio e uno dei suoi collaboratori si inserisce la malattia, dando rilievo al concetto di tempo limitato. L’esperienza dolorosa diventa un punto in comune che cambia la prospettiva delle discussioni sulla trasformazione organizzativa e sui metodi per attuarla. I personaggi principali cercano di persuadere reciprocamente attraverso esempi, racconti, idee e competenze, finché la guarigione diventa la chiave per consolidare l’amicizia, e gli scontri si trasformano in normali intermezzi di vita.

Il rapporto umano-lavorativo diventa uno sprone per superare i problemi di salute: “Stai diventando un obiettivo, Luciano, anche se il suo raggiungimento comporterà il sacrificio di tante notti, notti spese ad ascoltare un cuore che si rifiuta di abbandonarti; la tua sedia deve saperti accogliere quando ritornerai più forte e ambizioso di prima”.

Il libro affronta le tematiche degli operatori bancari in un sistema in crisi: “«Che fine hanno fatto gli imprenditori a te più cari? Proseguono la loro attività fra mille strettoie? o hanno deciso di smettere, maledicendo il fisco e la concorrenza? Stanno seguendo le banche nella loro rincorsa a rischi più definibili? o insistono nel mostrare un volto improprio per ottenere del credito?”.

Troviamo i consigli di un superiore a un giovane bancario: “La scuola è un altro mondo e qui non serve. Forse, è solo utile per i residui che ti lascia, ma non possono reggere l’impegno lavorativo. Devi ricostruire tutto, mi capisci giovanotto?”.

Emerge la descrizione del rapporto problematico con il presente: “La concentrazione sull’attualità rafforza l’invidia per i fortunati e la certezza di non aver goduto la vita, o di non averne colto tutte le opportunità”.

Un romanzo utile che racconta il mondo bancario e i suoi meccanismi, intricati e spesso sconosciuti, attraverso il volto umano degli operatori.

Nel libro le tematiche economiche incontrano le difficoltà umane, esplorando soluzioni per abitare il tempo e lo spazio di un mondo complesso.

Carlo Tortarolo

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Luciano lo conoscevo da alcuni anni, era entrato nel gruppo dei preferiti senza far rumore, disperso in mezzo agli altri se non ultimo della fila.

Come se avesse voluto nascondersi alla mia irruenza e alle mie pretese su quel manipolo di abitudinari. Avevo impiegato qualche mese per capire la sua personalità e le sue doti, poi mi ero convinto di una dedizione assoluta, ma poco appassionata e scarsamente incisiva, un uomo, insomma, inadatto all’avanguardia. L’avevo comunque seguito per esaltarne i punti di forza e costruire uno specialista orientato alla vendita; avrei dovuto aggirare e sconfiggere la sua voglia di proseguire a mezza luce nell’apatia del solco antico.

Durante le riunioni taceva sempre, e manifestava un chiaro disagio quando gli rivolgevo delle domande inaspettate. L’abitudine di sedere in fondo alla sala non mi sorprendeva più, ma quel venerdì pomeriggio mi sorprese lo sfinimento dei suoi occhi, così lontani dal nostro ambiente. I colleghi manifestavano una buona attenzione al relatore, talvolta sfiorata da sorpresa, insicurezza e condivisione; la sua mente stava invece respingendo le mie parole come se volesse allontanarmi da una violenta sofferenza interiore. Non era mai accaduto e la cosa mi turbò, costringendomi a confessargli il mio disagio. Rispose che da qualche tempo soffriva di turbe psicofisiche, e non era per niente intenzionato a mortificare le mie litanie. Parole sofferte, capaci di affiancarmi a lui in veste di difensore e scudiero contro il presunto despota che si prendeva gioco delle mie responsabilità.

«Fissa subito un appuntamento con il neurologo» lo spronai, chiamando in causa un possibile malanno. E invasi il suo terreno privato senza permesso quando soggiunsi: «Sai, potrebbe anche dipendere dalla compressione di una nuova massa». Mi fermai lì perché lessi nel suo sguardo uno smarrimento indecifrabile, forse non aveva inteso le mie parole o stava rifiutando quell’ipotesi, oppure l’assenza mentale gli impediva di riflettere. Il nostro colloquio si perse quasi subito e l’insolito torpore ebbe il sopravvento sul mio invito a risvegliarsi.

Riaffrontai l’argomento alcuni giorni dopo, accanto alla sua poltrona del riposo. La mia previsione aveva ricevuto delle conferme dalla diagnosi del neurologo e dalla TAC, una neoformazione stava invadendo la scatola cranica in prossimità dell’orecchio destro e comprimeva la materia cerebrale. I neurochirurghi aprirono la calotta per asportare le cellule inutili e ripulire il sito, ma l’esame del superfluo non approdò, almeno inizialmente, alla diagnosi definitiva. Permaneva la possibilità di una ripresa del male e la vita di Luciano appariva ancora a rischio.

Trascorso un mese dall’intervento constatai una ripresa, anche se il viso manifestava ancora i collaterali; quelle smorfie ripetute mi lasciavano perplesso, pur non sussistendo alcun dubbio sulla loro origine. Con gli anni si sarebbero attenuate; forse con gli anni, mi ripetevo guardandolo faticare per mostrarsi normale agli occhi altrui. Di là della flebile voce i suoi occhi si erano comunque riaperti e la mente riusciva a generare dei discorsi scorrevoli.

Quel presente monco, foriero di tante incertezze, continuava a torturarci, frapponendosi ai nostri piani di lavoro e all’esplosione dell’amicizia. Perché un uomo lo puoi stimare anche se le sue prospettive professionali non sono all’altezza; un uomo si ama, magari, per la perspicacia e la fedeltà, oppure per la tendenza a sostenere l’interlocutore con dei consigli preziosi. E Luciano era questo e molto di più, soprattutto da quando l’avevo indirizzato sulla buona strada impedendo al suo corpo di perseverare in quelle malefatte.

Ci misurammo col suo futuro in un’accoppiata che non voleva trascurare il mio. Quasi avessimo scoperto nella malattia la leva per gestire assieme la filiale, ricavandone una macchina in grado di considerare, valutare e decidere; per soffermarci, infine, a contemplare il risultato e raccoglierne i frutti. Questo in sua presenza, onde impedirgli di pensare agli esami che tardavano, all’incertezza dei medici e allo strascico psicofisico dell’intervento. Fino alla sensazione che presto o tardi l’animale si sarebbe potuto riprodurre, trasformando quel giovane cervello in una casa impossibile. Era un’ipotesi respinta con forza, grazie alle speranze riposte nella medicina e all’esperienza dei casi clinici assimilabili, ma non potevo sapere quanto la previsione fosse stata snaturata dalla pietà dei sanitari verso la sofferenza di Luciano e dei suoi familiari. Un aspetto che mi mandava in bestia, fotocopiando l’anima di un incerto tempo breve destinato a comandare l’ultimo scorcio della sua vita. Perché gli sviluppi della malattia devono essere spesso ricondotti a quell’incoraggiante frase fatta: “L’intervento è andato bene e il cervello non ha subito danni. Una convalescenza controllata tonificherà l’organismo, poi, dovrà proseguire con accertamenti periodici, anche se il tumore è un disequilibrio generale e non possono escludersi delle ricadute”.

Lessi quel referto decine di volte cercando di rintracciare una sola parola che mi conducesse alla verità, ma l’unica verità mi apparve legata a un presente minimale, così stretto da perdere l’attualità nella settimana successiva. Lo consigliai, allora, di tentare un approccio diretto a una conclusione probabile, ammesso che qualcosa di simile potesse esistere nella razionalità di qualcuno, o in quell’oscuro frasario scientifico. Pur non essendo giusto negare la conoscenza del proprio tempo di vita, come non è giusto nascondere la gravità della malattia con discorsi insostenibili e prognosi ipotetiche.

Lui continuava ad assillarmi con la solita domanda: «Secondo te, quanta vita mi rimane?».

E io non potevo rispondermi; né riuscivo a individuare un atteggiamento preparatorio per una vera risposta, indeciso com’ero fra rappacificarmi con la vita breve o corteggiare la speranza della guarigione.

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