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Patrizia Carrano anteprima. La figlia della serva

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Esce il 1 marzo per i tipi della Vallecchi La figlia della serva (pagg. 258, € 18,00), di Patrizia Carrano scrittrice, sceneggiatrice a tutto tondo, una delle prime che ha saputo fare della fiction una arte di seduzione e far conoscere al grande pubblico la Storia attraverso soprattutto le voci delle donne.

In questa ottica La figlia della serva ha due binari di lettura a suo modo diversi e complementari.

Il primo nasce dalla esigenza della scrittrice di dare seguito alla storia di Elisabetta, La bambina che mangiava i comunisti pubblicato sempre con la Vallecchi nel 2022, una bambina trascinata a Roma dalla madre che alla metà degli anni Cinquanta si troverà a cimentarsi, a districarsi nella vita politica romana di quel periodo. Nella capitale, mentre le ragazze sognano Cinecittà, gli artisti, i registi e teatranti mangiano a credito nelle osterie, mentre si attende l’avvento del boom economico la piccola Elisabetta entrerà a Botteghe Oscure e sarà protagonista anche lei di quel movimento culturale sociale e politico che fu il Partito Comunista con tutte le sue incongruenze, ma al contempo, anche un momento sociale grandissimo di vitalità del paese. Una sbornia collettiva che chiuderà un rilevante capitolo della sua storia nel fatidico anno 1956, quando cade la neve a Roma, quando l’URSS invade l’Ungheria e quando Elisabetta compie dieci anni.

Con La figlia della serva Patrizia Carrano voce a una Elisabetta che si fa adolescente e poi una giovane donna che osserva e vive gli anni a venire attraverso una sua speciale lente di ingrandimento. Una lente che le permette di ritrovare se stessa e di offrire agli altri personaggi, attraverso di lei, di arrivare, a delle soluzioni della propria vita che mai si sarebbero immaginati.

Abbiamo però anche un altro binario di lettura. Il secondo, forse quello che al quale tiene di più la scrittrice. La necessità di affrontare e narrare la figura della madre di Elisabetta. Questo romanzo è scritto per Franca Gobbi, una anziana signora di quasi novanta anni che ha saputo vivere le proprie contraddizioni, a volte ignorando le sensibilità altrui, ma che arriva all’ultimo giro di giostra senza rimpianto alcuno. Franca attraverso di nuovo una lente di ingrandimento, diversa da quella di Elisabetta, ci fa entrare nel suo mondo dalle granitiche certezze ideologiche, di amori e matrimoni e divorzi, di vittorie e sconfitte. Una lente di ingrandimento che permette a Franca, senza rinunciare a quelle che sono state le priorità della sua vita, di fare i conti con se stessa offrendoci uno spaccato, (non sono previsti sconti a nessuno), di quella borghesia intellettuale che ha rinunciato a farsi carico delle istanze dei più deboli, di coloro che non hanno voce. 

E infine forse c’è un terzo modo per affrontare questa lettura perché La figlia della serva è anche il racconto e la voce di un esercito di domestiche, portinaie, filippini, il badante peruviano Manuel. Questo esercito proviene dal Veneto povero (il sud ignorante del nord Italia); dalle Marche (terra povera di gente fiera); da quel reticolo di immigrazione non regolare che testardamente cerca di integrarsi senza dimenticare le proprie origini. Una lotta antica e mai risolta tra servi e padroni. Dove a volte c’è ancora spazio per la tenerezza e del tentativo di prendersi cura degli altri. A modo suo La figlia della serva racconta proprio quanto la cura degli altri passa, a parere di Franca Gobbi, dall’aver cura di se stessi.

 

Maria Caterina Prezioso

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A dividere la vita di Elisabetta e della Beppa da quella dei padroni di casa c’era soltanto un corridoio corto e stretto che fungeva da linea gotica, da fossato medioevale, quasi fosse una terra di nessuno difesa da rotoli di filo spinato e da cavalli di Frisia.

Era la Beppa a decidere come nutrire Elisabetta, quali vestitini farle indossare, come acconciarle i capelli. Scelte compiute con quotidiana, amorosa sollecitudine, ma che non la mettevano al riparo dai taglienti rimbrotti di Franca: «Con quel fiocchetto, la bambina sembra la figlia della serva».

La Beppa, ubbidiente, toglieva il fiocchetto, se lo ficcava in tasca e, appena i padroni erano usciti, lo rimetteva fra i capelli, là dove doveva stare: alla bimba il fiocchetto piaceva moltissimo e lei cercava in tutti i modi di farla contenta. Senza saperlo la Beppa, che mai si dimenticava di essere una serva, si comportava come una balia shakespeariana, pronta a ogni sotterfugio per salvaguardare le aspirazioni di felicità della propria pupilla, cui ogni tanto sussurrava: «Tosetta mia, quanto te vojo ben…».

Per badare a Elisabetta, la Beppa rinunciava spesso alla sua domenica di libertà. Quando, temendo un diniego, aveva chiesto con voce circospetta ed esitante di condurre con sé la piccola a San Donà di Piave «Così lei, signora, è libera, mentre io posso vedere i miei parenti» s’era subito sentita rispondere di sì. Da allora, almeno una volta al mese, la Beppa partiva con Elisabetta per San Donà, dove si fermava dal sabato al lunedì.

Alla stazione di Venezia, Beppa stringeva la piccola mano della bimba in modo convulso, per il timore che le succedesse qualcosa, che si perdesse, cadesse in un canale o finisse fra i binari. Ma quando, arrivate a San Donà, le due si avviavano a piedi verso i cigli argillosi di una periferia ancora campagnola, là dove abitava la sua famiglia, la stretta della Beppa si allentava e Elisabetta poteva camminarle a fianco e persino sopravanzarla di qualche passo.

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Non riusciva a immaginare che ne sarebbe stato di sé e del suo futuro. Aveva dodicimila euro da parte, altri diecimila le sarebbero rimasti dalla transazione fra Graziella e il signor Giuseppe, e continuava ad aver diritto al vitalizio. Ma era in mezzo a una strada, senza saper che fare.

Questa preoccupazione l’aveva perseguitata per tutta la sera precedente e se non ci fosse stata la suora nera a calmarla, portandola a fumare nel bagno del personale, avrebbe dato fuori di matto: «Tu devi stare con me e invece ieri sera non c’eri!» gridò inviperita al peruviano.

Con il grugno di una moglie che sospetta d’essere tradita, ascoltò le particolareggiate spiegazioni riguardo alla serata precedente. Manuel le aveva raccontato una mezza verità: era stato dal signor Giuseppe, l’aveva avvisato che le cose stavano sistemandosi… e aveva anche trovato dove andare a vivere.

Franca si stupì, non tanto del fatto che Manuel avesse trovato casa in dodici ore, quanto che i mobili di sua figlia esistessero ancora: aveva ordinato di buttarli, di regalarli, insomma di disfarsene, e la divertiva l’idea che Manuel li facesse riapparire come un prestigiatore che estragga una colomba dal cappello.

Per Franca il passato era passato e l’idea di aver radici non la toccava: quel disinteresse le regalava una somma libertà ma anche una somma fragilità. Franca non teneva a niente, non voleva niente, non ricordava niente. Non diceva, come fanno molte persone d’età, «i miei morti.»

Ma il suo carattere spigoloso e curioso la rese subito attenta: «E dove sono questi mobili?»

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