Ci sono storie che hanno la capacità intrinseca di scuotere e abbracciare. Vicende in cui la duplicità traspare già dal titolo, come questo “Baba” che in arabo significa, “papà”, una parola breve due sole sillabe a scandire un romanzo dalla doppia formazione, familiare e identitaria.
Baba è il coraggioso esordio di Mohamed Maleel, autore trentunenne sulle cui origini italotunisine lui stesso ironizza già nella biografia: “Metà orecchietta e metà couscous” così si definisce. Due cibi iconici e ponti fondamentali che ritorneranno nel romanzo (anche in forma di ricetta originale: il “couscous perfetto” della mamma con tanto di calligrafia a mano), in momenti chiave tra due famiglie e due culture, quella di Paola, madre pugliese e Taoufik, di origine musulmana e tunisina, dove l’atto del mangiare non è solo mera esigenza fisica ma importante momento di unione culturale. Ahmed, che in arabo significa “lodatissimo” nasce in mezzo a questo flusso multietnico. Ragazzino introverso, che da piccolo “riesce solo a piangere”, che deve addentare di nascosto i panini alla mortadella che gli prepara la nonna per non farsi scoprire e il cui nome dal fascino esotico l’ha deciso suo padre, per timore di ritrovarsi in casa un anonimo e troppo ordinario “Marco”.
«Ahmed è un nome sacro, non può che anticipare il futuro di un bambino protetto da Dio, almeno secondo mio padre. Ma nessun padre può davvero anticipare il futuro di un figlio, soprattutto quando decide in anticipo che sarà un futuro felice.»
Taoufik è un padre che per certi versi definiremo “padrone”, a tratti violento, inquisitore ma anche capace di slanci inaspettati di generosità e comprensione. Un uomo semplice, profondamente legato alla sua religione ma in grado di cucinare per tutti gli amici che entrano nella sua casa, di accettare e rispettare ogni credo. Un baba che si muove per contrasti, con le sue sfaccettature e i propri spigolosi limiti, in grado di regalare squarci di profonda tenerezza nel non far mancare al proprio figlio un cornetto al cioccolato ogni domenica mattina, o un pacchetto di patatine quando si rende conto di aver superato il limite. Una soglia pericolosa che spesso è sinonimo di violenza, anche fisica, scaturita da un carattere impulsivo a cui basta la scintilla di un cibo proibito o una parola di troppo a far partire la mano. In questo l’autore non fa sconti: Baba è una storia (come ogni storia di formazione si rispetti) scandita di ricordi agrodolci in cui dolore e commozione spesso convivono nello stesso paragrafo.
«Mio padre soffriva di forti attacchi di ira, che gli facevano perdere il controllo. Non era sempre così, e il cambiamento si avvertiva da minuscoli dettagli. Quando si faceva paonazzo e iniziava a camminare per casa voleva dire che era al limite. Se sporgeva il labbro inferiore e faceva versetti stupidi voleva dire che era pronto a giocare con noi. I suoi attacchi erano imprevedibili. Si arrabbiava spesso con me, ma se la prendeva con il resto della famiglia.»
Il gancio da cui partire sarà il ricovero forzato di Taoufik. Un male incurabile, probabilmente causato dall’età e le troppe sigarette, costringerà quest’uomo che non si è mai concesso un attimo di quiete all’immobilità forzata in una stanza d’ospedale e il rientro in Puglia di Ahmed sarà dunque l’occasione per ripercorrere i momenti salienti della propria storia familiare.
Dal rapporto conflittuale con i compagni di banco al rito della circoncisione che rischia di sfociare in tragedia a causa di una complicazione, alla sua trasferta in Tunisia per l’Erasmus e la scoperta della propria omosessualità, ciò che stupisce di questa articolata, intima confessione è la naturalezza e la spontaneità nell’esposizione. Sarà infatti la lingua a far da legante nel complesso confronto padre/figlio, un idioma meticco inventato dal padre che impasta italiano, tunisino e pugliese definito da Taoufik stesso “minsh normal” ma indispensabile anche al lettore per comprendere al meglio il pensiero di quest’ultimo.
Attraverso una narrazione che si muove mediante una sequenza di vivide istantanee sensoriali, lettere, stralci di appunti, l’autore alterna i capitoli principali a brevi dialoghi con un padre ormai sfinito a cui bastano un paio di battute e la promessa di un caffé per far emergere una tenerezza autentica e un senso di comprensione che acquisisce consapevolezza nell’atto del ricordo.
«Papà, hai trasformato i tuoi dubbi in barriere. Hai provato a distruggerle, ma ti sei accorto di essere a mani nude. Avevi già troppi calli, le tue mani ti hanno impedito di guardare dall’altra parte.»
«Per me la terra è dove creo una casa», afferma Mohamed in un’intervista rilasciata sul magazine LAMPOON e chi scrive non può che trovarsi pienamente d’accordo, profondamente grato per quest’opera il cui valore indiscusso traspare da una prosa semplice, a tratti candidamente ingenua e “urgente” (così è stata definita dallo stesso Matteo B. Bianchi, che ne ha curato la pubblicazione).
Baba è dunque un romanzo riesce in quell’impresa, sempre più ardua oggi, di scaldare il cuore e sollecitare il cervello senza dover ricorrere a sotteranei artefatti letterari bensì affidandosi alla mera e schietta esposizione di un frammento importante di vissuto.
Uno squarcio nell’intimità familiare meritevole di essere accolto con grazia e attenzione, che non si preoccupa di fornire risposte o facili retoriche pacificanti: nell’opera d’esordio di Mohamed Maleel non c’è alcuna lezione, solo la vita.
Una vita che cura, abbaglia e riverbera oltre le pagine, oltre il ricordo, oltre la soglia della nostra vacillante contemporaneità.
Tanto basta.
Stefano Bonazzi
#
Baba
Mohamed Maleel
Accento Edizioni
15,00 euro — 320 pagine