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Bruno Campanella Michelangelo anteprima. Vera poesia

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Le inquietudini di Michelangelo: “Come può esser ch’io non sia più mio?/ O·dDio, o·dDio, o·dDio,/ chi m’ha tolto a me stesso,/ c’a me fusse più presso / o più di me potessi che poss’io?”.

E le sue buone ambizioni: “Sol pur col foco il fabbro il ferro stende / al concetto suo caro e bel lavoro, / né senza foco alcuno artista l’oro / al sommo grado suo raffina e rende; / né ll’unica fenice sé riprende / se non prim’arsa; ond’io, s’ardendo moro, / spero più chiar resurger tra coloro / che morte accresce e ’l tempo non offende”.

La forza dell’amore che preme su Giordano Bruno: “Amor, per cui tant’alto il ver discerno,/ ch’apre le porte di diamante nere,/ per gli occhi entra il mio nume, e per vedere/ nasce, vive, si nutre, ha regno eterno;/ fa scorger quanto ha ’l ciel, terra ed inferno./ fa presenti d’absenti effiggie vere,/ repiglia forze, e col trar dritto, fere,/ e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno”.

Il mondo e le sue parti secondo Campanella: “Il mondo è un animal grande e perfetto,/ statua di Dio, che Dio lauda e simiglia:/ noi siam vermi imperfetti e vil famiglia,/ ch’intra il suo ventre abbiam vita e ricetto./ Se ignoriamo il suo amor e ’l suo intelletto,/ né il verme del mio ventre s’assottiglia/ a saper me, ma a farmi mal s’appiglia: / dunque bisogna andar con gran rispetto./ Siam poi alla terra, ch’è un grande animale / dentro al massimo, noi come pidocchi / al corpo nostro, e però ci fan male. / Superba gente, meco alzate gli occhi / e misurate quanto ogn’ente vale: /quinci imparate che parte a voi tocchi”.

È in libreria VERA POESIA di Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Michelangelo Buonarroti, (Edizioni E/O 2024, pp. 128, € 10,00) un’antologia che fu di Massimo Bontempelli e che oggi ritorna a cura di Stefano Guerriero.

La ricca tradizione della poesia religiosa italiana spesso non riceve l’attenzione che merita. Attraverso questa raccolta di liriche, promossa da Massimo Bontempelli nel corso del Novecento, ci immergiamo nei dialoghi metafisici sull’Amore di Giordano Bruno, nei versi religiosi, talvolta eretici, di Tommaso Campanella e nelle ispirate rime di Michelangelo. Bontempelli concepisce la poesia come un’opposizione dell’anima umana alla Storia e alla Società, un impulso verso l’elevazione dalle cose terrene. Il compito del critico è individuare tra i poeti coloro che rimangono “fedeli d’amore”, capaci di cogliere il sentimento che ci lega al prossimo più caro e a Dio.

La poesia è la più alta forma di espressione letteraria e in questa piacevole lettura possiamo lasciarci trasportare nel viaggio dell’esperienza amorosa attraverso le parole dei grandi.

Carlo Tortarolo

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Michelangelo, Bruno, Campanella: tre poeti irregolari nella letteratura italiana, che danno voce al periodo di grande inquietudine artistica e morale a cavallo tra Cinque e Seicento. Il toscano Michelangelo Buonarroti (1475-1564), nato di famiglia patrizia ormai povera e in declino, è l’artista dei papi, il genio del Rinascimento, nato forse solo per caso nella sua epoca, “uno spirito che universalmente in ciascheduna arte et in ogni professione fusse abile”, come dice Vasari, che gli dedica eccezionalmente una biografia mentre è ancora in vita.

Pittore, architetto, ma prima di tutto scultore, perché la scultura è per lui l’arte suprema – del resto Dio è stato il primo scultore, il primo a mescolare materia e spirito, a unire impermanente e eternità, dando alla bellezza del risultato uno statuto così ambiguo che sarà l’unica vera ossessione di Michelangelo per tutto l’arco della sua lunghissima attività, anche poetica. Già mitizzato in vita, la sua storia è tutta sospesa tra il temperamento scontroso e malinconioso, il bisogno creativo di solitudine – Vasari racconta che papa Giulio, curioso di vedere la volta della Sistina in corso d’opera, sia sfuggito per poco alle tavole che l’artista gli tirò dall’alto dell’impalcatura per cacciarlo – e le grandi committenze pubbliche: il David per la repubblica fiorentina, la volta della Sistina per Giulio II, le tombe medicee della Sacrestia nuova, con la misteriosa statua della Notte su quella del duca di Nemours, il perenne work in progress della tomba di Giulio II, il Giudizio universale per l’amico Giulio de’ Medici divenuto Clemente VII, se i potenti si possono considerare amici… Eppure, nonostante la gloria, quella di Michelangelo resta una vita incompiuta, alla ricerca di qualcosa di irraggiungibile: è mito anche questo, ma è quasi morto “subbiando”, cioè scolpendo, sbozzando l’ultimo capolavoro incompiuto, la Pietà Rondanini: estremo tentativo di liberare la pietra dal superfluo che nascondeva il suo concetto di bellezza, con le ultime forze del corpo a muovere gli attrezzi, spinto dallo stesso insoddisfatto ardore di sempre.

Il filosofo nolano Giordano Bruno (1548-1600), figlio di un militare di origini modeste e di una piccola proprietaria terriera, viene inseguito dai sospetti e poi da processi per eresia fin da giovane, appena entrato per il noviziato nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore. “Accademico di nulla accademia”, viaggia senza sosta tra Francia, Svizzera, Inghilterra, Germania, alternando accoglienze entusiastiche e espulsioni, nell’Europa inquieta della Controriforma e delle guerre di religione, finché il patrizio veneziano Giovanni Mocenigo lo denuncerà facendolo arrestare a tradimento nel suo letto, nella casa in cui lo ospita, nel 1592.

Tra le accuse generiche di Mocenigo, il disprezzo della religione e della Chiesa soprattutto, lo scetticismo su trinità, transustanziazione e verginità di Maria, la pratica di arte magica e divinatoria, l’indulgenza al peccato della carne (“mi disse che gli piacevano assai le donne, et che non havea arrivato ancora al numero di quelle de Salomone, et che la Chiesa faceva un gran peccato nel far peccato quello con che si serve così bene alla natura”). Trasportato a Roma nel carcere del Sant’Uffizio, viene torturato e infine sottoposto su richiesta del cardinal Bellarmino all’abiura di otto proposizioni eretiche dedotte dai suoi scritti, tra cui quelle sull’anima del mondo sensitiva e razionale attribuita alla terra, e sull’anima del mondo e la materia come principi eterni delle cose. “Eretico pertinace ed ostinatissimo”, come recita la sua sentenza di condanna, non abiura e brucia sul rogo otto anni dopo l’arresto, a Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600, nel luogo dove lo ricorda una scultura di Ettore Ferrari, inaugurata tra grandi scontri nella Roma ormai capitale del regno nel 1889. Quel rogo alimenterà l’immagine moderna di un Bruno martire del libero pensiero che, seppure tra molte forzature e usi strumentali, ha un fondamento concreto nella sua biografia.

Al di là dei tratti della sua filosofia naturale (che era “non il divino materializzato ma la materia divinizzata”, come ha osservato a suo tempo il primo storico della letteratura italiana, Francesco De Sanctis) è impossibile leggere Bruno senza partire dalla sua drammatica fine. Il potere ecclesiastico lo ha preso alla lettera e, ignorando lo spirito del suo pensiero, ha bruciato vivo il filosofo degli eroici furori, dell’amore come vincolo fondamentale, dell’ardore come conoscenza del mondo.

Scampa per poco invece alla condanna per eresia Tommaso Campanella (1568-1639), l’altro grande filosofo meridionale, ispirato dal naturalismo di Bernardino Telesio. Calabrese, nato a Stilo, nel devastato e angheriato vicereame spagnolo, figlio di uno scarparo analfabeta, è un vero e proprio mostro di natura, naturalmente portato alla conoscenza e alla filosofia. Entra anche lui giovanissimo nell’ordine dei domenicani, ma diventa una specie di chierico vagante, tra Napoli, Roma, Firenze, Padova, dove stringe amicizia anche con il giovane Galileo. La condanna all’abiura nel 1595 lo costringe a fare ritorno nella sua patria. Qui prende parte a una congiura che mirava a scrollarsi di dosso la dominazione spagnola e fondare una repubblica comunitaria e teocratica (in cui è facile intravedere il sogno futuro della Città del Sole).

Arrestato nel settembre 1599, pochi mesi prima del rogo di Giordano Bruno, il suo destino però sarà diverso da quello del Nolano. Campanella, con doti fisiche e morali del tutto eccezionali, sfrutta a suo favore una singolare anticipazione del Comma 22, implicito nei canoni giuridici del tempo: chi è pazzo non si può pentire dei propri peccati, la sua anima si perderebbe e la colpa della sua dannazione eterna ricadrebbe sui suoi giudici. Sottoposto a torture disumane, tra cui quella della “veglia”, quaranta ore appeso alla fune con le braccia slogate, con brevi pause su un legno tagliente, può finalmente firmare il documento che certifica giuridicamente la sua pazzia e l’impossibilità quindi della condanna a morte (memorabile la frase che avrebbe sussurrato al suo aguzzino, che lo portava via in braccio dalla stanza delle torture, incapace anche di camminare: “Si pensavano che io era un coglione, che voleva parlare!”).

Inizia così un lunghissimo calvario di detenzioni nelle carceri napoletane: Castel Nuovo, Castel Sant’Elmo, Castel dell’Ovo, tra tentativi di fuga mai riusciti, perorazioni della propria causa presso tutte le gerarchie e una produzione filosofica inesauribile, spesso su mezzi di fortuna, quasi da enciclopedista medievale. Commovente, tra l’altro, l’ingenuo e incauto tentativo di proteggere Galileo (proprio lui…) dall’ammonizione del 1616, con l’Apologia pro Galileo. La sotterranea “fossa del coccodrillo” di Castel Sant’’Elmo, immersa nelle tenebre e nell’umidità, nella notte e nel freddo perpetuo, dove passa quattro anni ferrato mani e piedi, è il punto più basso del suo supplizio.

Dopo quasi ventisette anni di prigionia e la beffa, che segue la liberazione, di altri due anni di prigionia a Roma (Papato e Spagna si contendevano la sua persecuzione), Campanella viene infine liberato da Urbano VIII e fugge nel 1634 in Francia, dove morirà tre anni dopo.

L’accostamento tra Bruno e Campanella, entrambi meridionali e frati domenicani, è tradizionale nella letteratura italiana: sono due poeti-filosofi, le due forme di pensiero sono strettamente intrecciate nella loro visione del mondo, sebbene le loro filosofie e la natura della loro fede abbiano profonde differenze. Meno comune l’avvicinamento di Michelangelo ai due: diversa la biografia, diverso il suo campo di attività artistico, sebbene anche lui abbia sentito influenze profonde da un altro domenicano inquieto in gioventù, Girolamo Savonarola. Se proprio si vuole trovare una cifra comune ai tre, essa risiede nel comune “neoplatonismo”, sebbene diversamente declinato, un platonismo che dagli ambienti medicei frequentati dal primo, si diffonde fin dentro il Seicento. Ma ancora più caratterizzanti sono l’invincibile volontà, l’inesausto eroico furore – per usare la terminologia di Bruno – che condividono a pieno, e il fondamento della loro opera su esperienze biografiche solitarie e del tutto straordinarie.

La poesia di Michelangelo ha sempre avuto grandi estimatori, come Thomas Mann che l’ha definita “poesia allo stato selvaggio”, ma la sua fortuna critica oscilla tra chi lo considera un petrarchista dalla mano insicura, uno che non ha studiato il latino e utilizza in modo impreciso tutto l’armamentario di mezzi tecnici e metafore consegnato da Petrarca alla poesia europea dei secoli successivi, e chi ne sottolinea gli aspetti berneschi, gli apporti popolari e realistici, i toscanismi. “E’ (egli) dice cose e voi dite parole” è il celebre giudizio che Francesco Berni – il maggiore poeta comico e burlesco del Cinquecento – dà di lui in un suo capitolo, contrapponendolo proprio ai petrarchisti.

Come ha osservato il grande poeta moderno Vittorio Sereni, gli oltre trecento componimenti che sono stati raccolti nelle Rime michelangiolesche formano la “storia di un’anima più che un canzoniere, e aggiungerei di un corpo”. È vero che la sua poesia è a tratti incompiuta o difficile, soprattutto per la sintassi spesso oscura. Ed è vero anche che Michelangelo – fortunatamente – non è affatto un petrarchista ortodosso: come Petrarca stesso in fondo, è un moderno, prende quello che gli serve dove vuole: non è ragno che produce il suo filo tutto da un’unica fonte, ma ape, che fa il suo miele da tutti i fiori su cui sceglie di posarsi (Petrarca, ma anche Dante, e poi Burchiello e tanti altri). Ma al di là di difficoltà e imperfezioni, e delle riflessioni intertestuali dei critici, la grandezza del Michelangelo poeta risiede appunto nella storia dei rapporti tra anima e corpo in uno dei più grandi artisti di sempre (“Michel, più che mortale, Angel divino”, recita Ariosto nell’Orlando furioso).

L’ossessione per la bellezza fisica (maschile soprattutto), la natura effimera di questa bellezza – sottoposta a quella che in suo madrigale chiama la “mordace lima” del tempo –, la consapevolezza platonica che proprio il corpo in cui cerca l’assoluto è la prigione dell’anima che lo fa aspirare a quell’assoluto, la consapevolezza – petrarchesca se si vuole – che se il fuoco d’amore va verso il cielo, esso in realtà è alimentato dagli occhi e da ciò che è terreno: questo è il paradosso insuperabile della condizione umana, a cui dà voce la sua poesia. Michelangelo non è “ansioso d’eternità e d’anima contro i limiti del tempo e del corpo”, come ha osservato Contini, ma è piuttosto ansioso d’eternità e d’anima dentro i limiti del tempo e del corpo.

In fondo, anche se si guarda il Giudizio universale, capolavoro pittorico di uno che non si riteneva pittore (I’ ho già fatto un gozzo in questo stento), non vi vediamo un moto lineare di ascensione verso l’alto, verso Dio – come nel viaggio di Dante verso l’eternità, la patria celeste – ma un infinito moto circolare tra alto e basso, tra salvezza e dannazione. Unica via di fuga a questo moto perpetuo è l’arte come atto di resistenza alla morte e alla scomparsa della bellezza. Da qui provengono anche molte delle cose più belle della poesia michelangiolesca: la contrapposizione tra il suo “rozzo martello” e la morte; il rapporto tra arte e divinità (“nessun martel senza martello si può far”); l’analogia tra il fuoco dell’arte – dell’orefice o del fabbro – e il fuoco d’amore; “la mano che ubbidisce all’intelletto” ritrovando nel marmo il concetto che la guida, del celebre sonetto Non ha l’ottimo artista alcun concetto.

Vasari, il suo primo biografo, ha osservato che con Michelangelo era nato “un ingegno che ci mostrasse perfettissimamente l’infinito del fine”. Questa fede assoluta nell’arte è il cuore della sua esperienza, anche poetica, che per il resto viaggia come tutte le esperienze verso la sconfitta, verso una sensazione di vanità, già forte nei componimenti dedicati a Vittoria Colonna (che fanno da contraltare alle appassionate poesie per il giovane Tommaso Cavalieri di cui si innamora quasi sesssantenne, e per cui attinge senza limiti al lessico amoroso petrarchesco) e definitivamente dominante nelle ultime cose scritte (Carico d’anni e di peccati pieno; Di morte certo, ma non già dell’ora).

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