La vendetta dei prigionieri dei lager liberati contro i cani dei torturatori: “Insomma, i prigionieri di guerra s’erano mossi compatti come una mandria di bisonti verso il canile e, anche senza chiavi, avevano sfondato i cancelli delle gabbie, avevano preso i cani lupo, li avevano ammazzati tutti, alcuni a bastonate, alcuni strozzati a mani nude, poi li avevano scuoiati e macellati, perché tra due-tremila uomini quanti erano, certi lavori li sapevano fare in molti: cacciatori, contadini, scannatori dei mattatoi. E dopo li avevano cotti arrosto con degli spiedi improvvisati fatti coi rami, come fanno i pastori sardi col porcetto, e poi li avevano mangiati, piluccando anche gli ossi: brividi d’orrore nell’uditorio.”
Le ambizioni dei poveri: “Che poi, adesso che era finita la guerra, a fare il soldato c’erano anche dei vantaggi concreti, che erano sot – to gli occhi di tutti. Per esempio, se uno si congedava durante l’inverno, se ne tornava a casa con la divisa in – vernale, che comprendeva pantaloni pesanti, giubba pe – sante, mutande calzetti camicia pesanti, lo zaino e soprattutto il cappotto, il cappottone lungo fin sotto ai ginocchi: tutta roba che si poteva utilizzare nella vita civile, nei cantieri edili, nelle botteghe, nei pescherecci, nelle possioni del conte Labardati: nei campi e nelle officine, come cantavano anni dopo quelli che non li avevano mai visti”.
Dal 17 Aprile sarà in libreria The Washington Tales – I racconti di Vasìnto di Paolo Tebaldi (Edizioni E/O 2024, pp. 224, € 18).
Paolo Teobaldi e nato nel 1947 a Pesaro, dove vive. Ha fatto il traduttore, il copywriter e l’insegnante d’italiano. Come narratore ha pubblicato: Scala di Giocca (Èdes, Cagliari, 1984) e per le nostre Èdizioni Finte. Tredici modi per sopravvivere ai morti; La discarica; Il padre dei nomi (Premio Frontino-Montefeltro 2002); La badante. Un amore involontario, candidato al premio Strega nel 2005; Il mio manicomio e Macadàm.
Nel cuore delle terre tra Marche e Romagna, c’è un nome che risuona con l’eco di un’altra epoca, un’altra terra: Washington. Ma qui, tra le strade polverose e gli oliveti, si pronuncia diversamente, con un tono che porta con sé il peso di generazioni e il riflesso di un’identità lontana: Vasìnto.
The Washington Tales sono più che racconti. Sono frammenti di una vita vissuta intensamente, raccolti con cura e offerti con la grazia di chi ha attraversato gli alti e bassi della storia. Qui, nella narrazione di un falegname, si intrecciano le trame della miseria sotto il regime fascista, la brutalità della guerra, e il dramma della deportazione e della prigionia.
Ma non c’è solo tragedia in queste storie. C’è anche l’ironia sottile di un narratore che guarda il mondo con occhi bonari, che ride delle sue contraddizioni e trova conforto nell’umanità che lo circonda. È un racconto che si tramanda oralmente, come un fuoco che arde nelle notti d’inverno, richiedendo la complicità e l’indulgenza del lettore.
Questa è un’antologia di vita, di lavoro, di amore e di perdono. È un tributo alla saggezza di chi, pur privo di istruzione formale, custodisce nel cuore la grandezza delle parole di Dante e la bellezza delle tavole di Doré, come tesori preziosi scavati nella memoria.
Il racconto di una generazione che ha vissuto sofferenze e difficoltà vere senza perdere la speranza e l’amore per la bellezza.
Carlo Tortarolo
#
1.Frammento del figlio del mezzadro
In principio era il camino della casa vecchia. Un caminone completo di cappa, di mensola, di rola e d’alari, col caldaio che pende dalla catena. Niente doppietta sulla cappa, purtroppo, come nella casa dei Salón sulle rive del San Bartolo: e sì che siamo cugini, anche se non cugini buoni, però ci vogliamo bene per davvero.
Le visite tra le nostre famiglie sono rare unicamente per via delle frane, delle rive che slamano, per cui i Salón in città vengono giù di rado e solo per validi improrogabili motivi (nascita o morte di qualcuno, una puntata all’anagrafe per cavare le carte, un salto alla camera mortuaria) e ogni volta, arrivati dentro le mura, si muovono impacciati e con circospezione, passando per vie secondarie ed evitando con cura la piazza, il cardo e il decumano, il duomo e la prefettura, con quella loro andatura da cammello che si vede da lontano, e da vicino s’annusa, che sono contadini.
Noi invece siamo cittadini: cioè siamo porétti come loro, forse anche più di loro perché non abbiamo né polli a cui tirare il collo né conigli da sgozzare, però abitiamo in città, in affitto, in un seminterrato a ridosso delle mura, per cui rientriamo a pieno titolo nella categoria dei cittadini: quelli del selciato, dicono al porto, anche se, quando piove, la luzza della nostra strada non ancora asfaltata è paragonabile per vischiosità, se non per colore, alla malta e alla lecca giallognola del San Bar tolo: e infatti in città, a guardar bene, ai piedi di ogni portone, a pochi centimetri dal cardine inferiore, è innestato un raschietto, una staffa metallica per to glie re il grosso del fango dalle scarpe, con una nicchia scavata nel muro per agevolare l’operazione.
Che poi i Salón saranno anche contadini ma non sono scemi per niente, anzi hanno un modo tutto loro di raccontare le storie e di prendere in giro i cittadini e tutti quelli che credono d’essere più intelligenti.
E qui partiva subito il frammento di Fino, il figlio maggiore di un mezzadro, uno dei tanti, del conte Labardati, che poi di nome faceva Terenzio come il nostro Santo Patrono: un ragazzo che a sentire suo padre era così intelligente, ma così intelligente (aveva il diploma di terza elementare!) che in famiglia e giù per quelle rive del San Bartolo, dalla foce della Foglia a quella del Tavollo, lo chiamavano tutti Fén, cioè Fino, per via del suo cervello fino, anzi sopraffino (da non confondersi con fèn, che vuol dire fieno).
Insomma Terenzio era per tutti Fén e in terza elementare la maestra Cecchi della pluriclasse di Santa Marina Alta, nipote del famoso esploratore, lo chiamava Fino già dall’appello e si faceva aiutare da lui, e solo da lui!, per spiegare le addizioni ai bambini di prima e di seconda che non ci arrivavano: quelli che per fare 2 + 2 s’aiutavano ancora con le dita.
Ma poi c’è sempre il miscredente, quello che non crede neanche nel ciborio, e questa volta il San Tom ma so di turno è il fattore, che regolarmente capita nelle tante possioni del conte col calessino (questo prima della guerra) e poi con la Balilla (dopo la guerra) per fare una botta di conti, a controllare che i contadini non nascondano degli orci e delle boccalette pieni di grano e d’olive nelle grotte d’arenaria che sanno loro: prima di tutto perché rubare è peccato e poi perché, semmai, rubare al Padrone tocca a lui.
Così quando una volta, davanti al quaderno dei conti, il mezzadro gli dice subito che non ci sono errori, non è possibile che ci siano errori perché ha già controllato tutto suo figlio grande, quello che ha fatto il soldato in Altitalia: quello che, da quanto è intelligente, chiamano tutti Fino, il fattore storce la bocca e alza le sopracciglia come per dire: Sarà…
Allora il padre la prende male, anzi s’offende, s’alza dal tavolo di scatto e con un gesto di sfida lo invita a venire alla finestra per dimostrargli che lui non dice le bugie e che il fattore fa male a dubitare delle sue parole.
Apre la finestrella del primo piano (sotto c’è la stalla e la rimessa del biroccio) che affaccia sul declivio terrazzato della possione, giù giù fino al mare: il melauro dell’aia in primo piano, con le galline che già si stanno accoccolando per la notte sui rami bassi; i filoni di grano; i filari della vigna maritata coi mori; lo stagno con dentro la marotta delle anguille e in fondo, quasi sulla spiaggia, il figlio grande, il famoso Fén che tra gli olivi sta zappando la terra a testa bassa.
Il padre mostra la scena al fattore con un largo movimento del braccio, gli indica il figlio, sistema le mani a imbuto davanti alla bocca e chiama a gran voce: Fééén!
Una volta sola. Una frazione di secondo e quello alza la testa voltandosi verso casa.
Visto?, chiede il padre trionfante.