Ho iniziato a leggere questo libro attratta dal suo titolo “Il dolore non esiste”. Ho pensato che fosse una bugia. Ho pensato che l’autrice lo sapesse bene. Ed infatti ciò che viene dichiarato in copertina, pagina dopo pagina, perde di consistenza, dal momento che quel dolore è presente, pieno, pesante, dalla prima all’ultima riga. E allora cos’è questo dolore? Cos’è questa sofferenza che urla, che si oppone, che non riesce a prendere pace?
Il dolore non esiste è una sorta di testamento che il padre della protagonista, Achille, gli lascia attraverso i ricordi. Quella frase ripetuta più volte da suo padre diventa una sorta di certezza che l’accompagna nella sua esistenza di donna, di madre ma soprattutto di figlia. Una figlia che improvvisamente smette di essere riconosciuta come tale. Achille viene descritto dall’autrice come un uomo estremamente affascinante: un uomo con un carattere forte, con le idee chiare; un uomo spigoloso, che non ha mai brillato per dolcezza, che si è dimostrato a tratti anche aggressivo e violento, e che nonostante questo riesce a provocare un’attrazione sottesa, non ben giustificata, probabilmente frutto del mistero della sua assenza. La Bernardini ce lo racconta attraverso aneddoti della sua infanzia e adolescenza, attraverso alcune sue frasi disseminate per l’intera storia, con descrizioni mirate e dirette che aumentano con il procedere della lettura la voglia di conoscerlo meglio e scoprire cosa ci sia dietro quella fuga.
Il romanzo di Ilaria Bernardini “Il dolore non esiste” (Mondadori, 2024, 180 pagine, 17,57 euro) è un romanzo autobiografico su un’assenza, non solo quella di un padre, che tutto sommato potrebbe anche essere accettata, ma l’assenza di un perché un padre da un giorno all’altro, senza alcuna motivazione, abbia deciso di scomparire dalla vita di una figlia. Si può smettere di essere padri? A quanto pare, Achille decide di farlo, ma non con tutti i suoi figli, solo con Ilaria. Perché proprio con lei? Perché questa reazione così dura da relegarla nell’indifferenza più totale? L’autrice ci racconta dei diversi tentativi di creare un rapporto, distrutti da un silenzio immotivato; ed è proprio in quel non comprendere che risiede il suo continuo tentativo di avvicinarlo nuovamente a sé, il suo continuo tentativo di sentirsi figlia, ancora. Il dolore di quell’assenza è così totalizzante che, nel raccontarlo, Ilaria tenta di minimizzarlo: è meglio costruire una realtà diversa e ripetersi che “il dolore non esiste” piuttosto che accettare di essere stata abbandonata senza alcuna ragione.
Ilaria quel dolore non riesce a rispedirlo al mittente, nonostante sia una sceneggiatrice di successo, nonostante sia una mamma di un ragazzo adolescente che comincia a costruire la propria autonomia e che sente sempre più distante, nonostante abbia quarantaquattro anni e una vita da vivere, quel dolore continua a farle compagnia diventando parte integrante della sua esistenza. Un dolore così presente che a tratti sembra divenire quasi rassicurante, un rifugio, una certezza, l’unica che le rimane in mezzo alla vita che piano piano sembra muoversi e prendere delle direzioni diverse da quello che lei avrebbe voluto. È così che la sua mente cerca un modo per scacciarlo, ma mentre ci prova un ricordo proveniente da molto lontano, dei guantoni che suo padre le aveva regalato per il suo compleanno, le danno un’ultima possibilità di rivederlo. Lo invita a partecipare ad un incontro di boxe, l’unica cosa che ancora li unisce. Cerca le parole giuste per scrivergli un messaggio e dirgli di presentarsi, nel giorno del suo compleanno, su un ring simbolico che li vedrà uno contro l’altra. Da quel momento seguiamo questa preparazione che, più che atletica, diviene un lungo training emotivo, in cui la protagonista scava nei ricordi, parlandoci della sua famiglia di origine, delle sue nipoti e di tutte le persone più vicine a lei, incluso suo figlio, che prendono sempre più le distanze da quell’ultimo tentativo di ritrovare un padre. Ilaria però ci crede. Fino alla fine. E ci proviamo anche noi, con tutta la nostra forza. Forse è più giusto dire che ci speriamo in quell’incontro. Speriamo, proprio come Ilaria, di avere delle risposte, di incrociare gli occhi di quell’uomo affascinante, capire cosa sia successo, sentire le parole con cui giustificherà quell’assenza così pesante. Ci speriamo fino alla fine che quel dolore possa finalmente essere urlato, compreso, riconosciuto. Per non avere più paura di accettarlo e accoglierlo, come un pugno in pieno stomaco ferisce e fa male.
Nancy Citro