[…] Le nazioni hanno sfasciato il mio impero che era un’Europa in miniatura. Anzi, più Europa di tutti gli altri imperi perché non aveva colonie e bastava a se stesso. Non era il migliore dei mondi possibili ma tutti andavano a scuola e la burocrazia era onesta […]. Capisco perché l’hanno fatto a pezzi, l’impero dei miei nonni. Quella congerie di popoli uniti dava proprio sui nervi alle nazioni. […] (pag. 21).
Dal confine italo sloveno, dove vive attualmente, Paolo Rumiz continua a guardare un’Europa sempre più schiava della dittatura della rete, dai confini chiusi con il filo spinato, attraversata da ombre di sovranismo, pericolosamente barcollante sui principi su cui si fonda la sua stessa Costituzione. Il confine è a meno di un chilometro da casa sua. Camminando nei boschi, ha imparato a viverlo non come separazione o barriera ma come “luogo d’incontro e conoscenza”. Qui, a ridosso dei Balcani, ha appreso che spesso le guerre identitarie, anche quando sono vincenti, si concludono con l’autodistruzione dell’identità.
C’è una linea d’ombra in Europa, scriveva nel 2003 (in È Oriente) – non è ovest e nemmeno est. Sta al centro, taglia la Mitteleuropa e il suo groviglio di etnie. Corre dal Baltico ai Balcani e segna i luoghi dove i due totalitarismi del ventesimo secolo si sono affrontati nel modo più infame. Disegna una geografia di vergogne: lapidi, ossari, cortine di ferro, campi di sterminio. È un reticolo di memorie nere che ha generato, negli stessi luoghi, un’altra geografia, sommersa, fatta di omertà, amnesie, negazioni e rimozioni di colpa. Tutte reazioni umane, persino comprensibili: se non fosse che, anche a distanza di anni, possono generare nuovi mostri.
Rumiz ha continuato a viaggiare e raccogliere , in tutti questi anni, appunti sull’Europa. Oggi quei mostri si sono ingigantiti e vengono avvertiti dai “sensori” di quei confini che fanno parte del suo DNA. Una sedimentazione cumulativa di informazioni e connessioni rintracciabili in opere precedenti ma articolate con uno stile letterario che si serve di un nuovo motore espressivo. In Canto per Europa, infatti, prevale una commistione di prosa e poesia e l’uso quasi ossessivo e pericolosamente ondeggiante dell’endecasillabo che riflette le oscillazioni del moto ondoso su cui viaggiano i suoi argonauti contemporanei; in questo suo ultimo libro, invece, la sintassi è sincopata, registra l’irregolare attività sismografica dei pensieri che si affastellano e si amplificano, inquietanti, nel buio della notte.
Verranno di notte si compone di brevi capitoli dal ritmo concitato ed istintivo , trasformando la pagina in un esploso mosaico di figurazioni spesso ironicamente provocatorie, sintatticamente frammentate ma non ridondanti. La parola è sempre lavorata, battuta, scolpita, cesellata . Un bagaglio di spunti destinati, nel progetto iniziale, a condensarsi in un pamphlet che, inaspettatamente, si è trasformato in un libro di 200 pagine di pensieri espulsi in un dormiveglia inquieto, come stormo di uccelli migratori che spiccano il volo .
Un grande fantasma si aggira nell’Europa, complice il disincanto per una sinistra prigioniera della sua stessa coscienza critica , che non è più in grado di ascoltare la sua gente ,afferma in un discorso di presentazione del suo libro al Teatro Genovesi di Salerno, ospite di Casa della Poesia. Parole come pace, popolo, libertà, sono emigrate altrove. Il mio è un libro pericolosamente antifascista, -dice- ma che non risparmia critiche e stoccate durissime ad una sinistra abile a costruire raffinate analisi ma incapace di proporre valide alternative, di ascoltare, interpretare la paura della gente comune sul futuro del nostro paese e dell’Europa. Il vuoto della politica si allarga e, in assenza di un contropotere, il pericolo di una deriva è in agguato. Siamo alla vigilia delle elezioni europee, una grande incognita in un’ Europa disunita e senza figli , un vascello fantasma alla deriva di cui i poteri forti faranno un solo boccone (pag. 36). L’ Europa si avvia ad essere oramai irrilevante sulla carta geografica, oppressa da forze nazionaliste e centrifughe.
[…]Europeo, non conoscerai la tua terra in aereo. Ti servirà il treno, la corriera o la bicicletta per entrare nella verità dei paesi […] (pag. 23). Lo strumento più diretto di conoscenza è sempre stato, per Rumiz, il viaggio lento. Infatti i suoi libri ci hanno raccontato in questi anni i suoi numerosi viaggi intrapresi con tutti i mezzi popolari di spostamento, i passaggi da un bordo all’altro del continente europeo, attraversamenti di dogane, recinzioni, barriere, incontri con la gente comune, distillati di umanità, paesaggi e memoria dei luoghi. Rumiz ha saputo trasformare il cammino e la trasmissione orale nell’ arte di definire la capacità di agire partendo dalla pausa, dall’intuizione profonda, dall’ascolto dell’altro.
Nelle sue narrazioni abbiamo visto il colore senape delle cupole ortodosse, il colore mercurio dei fiumi e l’ argento dei laghi, sentito l’odore dell’erba umida, il profumo delle betulle e degli agrumi, colto l’ironia, la sua naturale disposizione alla condivisione. Questo crea empatia immediata con lo scrittore che ha cantato i fiumi, vagato attraverso i Balcani (come giornalista di guerra), viaggiato in bicicletta da Trieste a Istanbul. Dalla linea di confine triestina oggi Rumiz ci appare più preoccupato che mai delle sorti dell’Europa; lo si intuisce analizzando passaggi del libro dove rivivono senza sovrapporsi cronaca, aneddoti, commenti, dichiarazioni spiazzanti, evidenziati con il tratto sicuro, preciso, limpido, della sua scrittura. Incubi e visioni notturne si allungano come ombre in questo suo ultimo lavoro che completa la quadrilogia sull’Europa, dopo Trans Europa Express, Il filo infinito e Canto per Europa. Secoli addietro, i monasteri benedettini presidi di resistenza seppero salvare l’Europa in un tempo di oscuri presagi, molto simile al nostro. Furono capaci di vincere la minacciosa avanzata dei barbari con la testimonianza della loro regola monastica in un territorio devastato e violato, rimettendo in piedi il Continente nel momento in cui all’Europa non credeva più nessuno (pag 175) . Oggi, come teneremo a bada il ritorno delle nazioni ?
Il testo, scritto in brevissimo tempo (iniziato a metà marzo e presente nelle librerie da poco più di una settimana), non ha un’architettura interna ordinata ma è un insieme di pensieri folgoranti, giunti ad affastellare momenti in bilico tra la veglia e il sonno. Sono visioni senza sequenza logica che hanno un manifestarsi eruttivo e si sistemano nel reticolo di una narrazione che cerca un possibile equilibrio fra il piano del reale e le rivelazioni dell’inconscio. Al di là dai richiami intertestuali, di citazioni , colpisce la quantità di risonanze, di riflessioni, di turbolenze mentali ed emotive che a mano a mano che si avvicina l’alba si aprono ad una visione fatta di piccoli punti-luce che aprono un varco nell’oscurità .
Rumiz racconta di averne iniziato la stesura subito dopo un evento per lui particolarmente significativo. Era stato invitato alla Scala di Milano ad introdurre con una sua lettura, “La memoria del legno” un concerto dell’Orchestra del mare che suona con strumenti ricavati dagli scafi delle barche dei migranti approdati a Lampedusa. “Vediamo se riuscite a riconoscermi: puzzavo di salsedine e di vomito quando sono approdato a questa terra[…] Non so se mi credete[…] io sono il Legno venuto dal mare. Ero sfinito, a pezzi, ricordate?”. Se gli uomini avevano perso la memoria il legno no. Era stata un’esperienza magnifica, indimenticabile ma si doveva fare di più, parlare al popolo, cercare di rispondere con il cuore alle ragioni della pancia.
Verranno di notte si configura come la prosecuzione di “Canto per Europa” in cui Rumiz aveva raccontato il mito fondativo dell’Europa. Nel mito greco, Europa è una principessa fenicia: per sedurla, Zeus si trasforma in un toro e la conduce con sé verso Ovest, fino a Creta. Da lì il nome si sarebbe poi esteso a tutto il continente. L’Europa di oggi, imbarbarita, ha invece dimenticato le sue origini, le sue narrazioni fondative , persino il suo nome – afferma lo scrittore. Il problema, paradossalmente, non è l’avanzare delle destre in tutta Europa ma il silenzio di tutti gli altri, l’assenza di un contropotere . E in politica il vuoto è pericolosissimo, perché viene riempito dal primo demagogo che allo spaesamento dei cittadini offre soltanto megafoni ma non soluzioni. In assenza di etica, pontifichiamo di morale, blindiamo i confini e allunghiamo i reticolati mentre le “anime belle” “lanciano anatemi contro la crudeltà dei tempi presenti e dissertano a stomaco pieno della fame altrui”.
Quale nuova barbarie in Europa? Chi sono i nuovi barbari? In greco, spiega Rumiz nelle pagine finali del libro, bàrbaros vuol dire balbuziente. E allora, cos’altro è la barbarie se non balbettìo, perdita della meravigliosa complessità insita nel vocabolario e nella sintassi? […] Se oggi il mondo si copre di focolai di guerra è perché le parole sono in mano a malintenzionati, spesso governati da poteri invisibili che fanno breccia sugli ingenui ed ignoranti. Se Russia ed Ucraina rischiano di autodistruggersi o se non si scioglie il nodo di Gaza è perché manca in Europa la capacità dialettica, […] perché la parola identità, nel referendum di Brexit, è stata manipolata da irresponsabili. E qui il discorso di Rumiz torna all’incipit del libro, in una sorta di cerchio che si chiude. La parola identità ha la stessa radice di idiotes che in greco ( come gli aveva spiegato un anziano incontrato su un’ isola dell’Egeo) significa “quelli ripiegati su se stessi” o meglio ancora “quelli che vivono guardandosi l’ombelico”. Siamo allora senza speranza? Eppure, dal buio della mezzanotte alle prime luci dell’alba, quaalcosa sembra aprirsi alla speranza . Ma la parola speranza non piace a Rumiz. Preferisce parlare di forza di un pensiero collettivo che per fortuna è ancora vigoroso, di una consapevolezza che costituisce un possibile riscatto. Segnali positivi, punti-luce, si fanno strada, a mano a mano che la notte si dissolve. I pensieri diventano meno angoscianti, le voci interne meno cupe e pressanti. Arriva, sul far del giorno, portata dalla bora, una rinnovata capacità reattiva di raschiare le ultime riserve di sabbia dal fondo della mia carcassa perché possa, con gioia feroce, intingervi la penna (pag. 127). Quelli come me, si legge sulla quarta di copertina, non hanno che parole da offrire. Ma le parole non sono poco, in questo sconcertante silenzio.
Anche se in un mondo mediatico dove è imperante la narrazione del negativo il bene non fa notizia , non vende, in tanto marciume non mancano segnali positivi. Ci ricorda che un grande segnale è giunto fortunatamente proprio dalla Germania dove la società civile ha reagito scendendo in piazza spontaneamente contro l’AfD. A partire dalle nonne, con il loro meraviglioso movimento Omas gegen Rechts […] Si sveglia anche la Germania, dunque : per la prima volta, folle antifasciste anche nei piccoli centri come Landau, Bad Segeberg. La gente esce dal letargo persino nelle terre della camorra come Caserta, dove, ad esempio , un gruppo di cittadini ha preso in carico la coogestione di un parco abbandonato trasformandolo in un aranceto e gestendolo come bene comune. È tempo di battaglia, è tempo di difendere le parole dall’aggressione della barbarie .
Rossella Nicolò