«Maleuforia è malafemmena, malacrianza, maleservizio, malaparata, malalengua, malaciorta, malarazza, malacarne, malacqua, malommo: è tutte quelle cose che sembrano trascinare il male e la tristezza e la nostalgia, ma che nel fondo fangoso della loro natura lasciano intravedere la grazia, l’incanto, la perfezione delle cose incompiute.»
Maleuforia prende vita nell’estasi.
La transizione del protagonista da Raffaele a Lèmon descritta nelle prime pagine ci proietta in medias res all’interno di una processione di lustrini, paillettes, giochi di luce, tessuti e arazzi dai colori cangianti. L’immagine rimanda all’iconografia di una madonna incoronata e il lettore non può che assistere inerme, estasiato, ammaliato quanto il soggetto della metamorfosi stessa. L’incipit è già una presa di posizione: non si può zittire il proprio veronome, negare la nostra natura è qualcosa che sa di blasfemo.
Date queste premesse il romanzo fa un passo indietro. Dopo la folgore iniziale si ritorna nei panni Raffaele, i toni si raffreddano nella convivenza con la sorellina Imma, anch’essa priva di una figura genitoriale salda e una nonna convinta di poter sedare l’entusiasmo dei nipoti a suon di ceffoni e punizioni. A Raffaele però, il suo nome e il suo corpo stanno “strettistretti”, da tempo non si riconosce in quell’involucro mascolino, nel ruolo imposto, tiene una voce che spinge per uscire: è lei che implora e supplica all’evasione. Raffaele decide quindi di scappare per unirsi alle prostitute e i femminielli del bordello di Donna Sofia ma l’apprendistato per essere accettato tra le mura dell’eccentrica dimora non sarà semplice e neppure veloce.
Come in ogni romanzo di formazione che si rispetti, anche in Maleuforia la parabola esperienziale parte dal basso: a Raffaele, Cenerentola contemporanea dai modi sommessi e lo sguardo (inizialmente) discreto, toccheranno le pulizie, la cura degli altarini, la toeletta delle stanze dove, fino a qualche minuto prima, s’è compiuto il rituale solenne dell’amore venduto. Sono queste le pagine dai colori più edulcorati: lo stupore di Raffaele riverbera nel voyeurismo di chi legge e con lui si addentra tra i piani di questa Babilonia d’essenze e languori.
Tra occhiate lascive e prime infatuazioni, il pudore cede presto il passo a un bisogno naturale d’affermarsi nel corpo e nell’identità di una nuova lei: Lèmon – ragazza dal corpo liscio e sinuoso quanto il suono del suo nome.
«Per la prima volta qualcuno pronunciava il mio veronome come volevo. Lèmonlèmonlèmonlèmonlèmon. Avrei potuto offendermi per quella sua considerazione, invece fu spontaneo fargli un sorriso a bocca aperta. A dire la verità, scoppiai a ridere, e risi, risi, risi talmente tanto che mi vennero le lacrime agli occhi, di gioia o di malinconia non lo sapevo, di felicità o di liberazione per tutte le emozioni che avevo vissuto quel giorno non lo sapevo[…]»
Sia fatta dunque la volontà di un corpo che reclama altri corpi. Lèmon, finalmente libera da ogni inibizione, dopo i primi approcci insicuri prende consapevolezza del suo fascino e di quella capacità, in parte innata, in parte acquisita dagli insegnamenti di Donna Sofia, Cleo, Linda e le altre ragazze del bordello, di ammaliare l’occhio altrui con un semplice movimento, un guizzo della carne.
Alla rivelazione segue dunque la consacrazione. Lèmon s’approccia ai primi clienti: Carmine, Eli, l’affascinante, sfuggente Alessandro. Le stanze dell’Attesa, al bordello, così come le strade, i bar aperti fino a mattina, i vicoli da infratto pulsano e si animano nell’urgenza di appagare un desiderio tanto vorace da inghiottire il sole, lasciando la notte in balìa dei neon fluorescenti appesi agli altarini di santateresa, delle madonne tutte.
Deborah D’Addetta racconta la parabola di una transizione con la sicurezza e l’allure dei pavidi, di coloro che scelgono l’idea romantica di una rivoluzione all’annichilimento delle convenzioni e in questo moderno atto di fede sferra un violento fendente alle regole non scritte di una civiltà mascolinamente miope. Tale è l’attenzione alle scenografie qui imbastite, alla perizia riservata a ogni personaggio, dall’iconica tuttofare Pipu, alla seducente Maria che non ci si stupisce a leggere nei ringraziamenti finali che il libro ha richiesto ben sei anni per essere portato a termine. Ogni elemento dell’intreccio si colora attraverso una prosa mai sbruffona o ipocrita, per nulla manichea, ironica quando occorre e padrona di troncare ogni termine a lei superfluo. Il dialetto è qui libero di mescolarsi all’eleganza di una terminologia meticcia: elegante ma che sa anche sporcarsi le mani nel pruriginoso, nel fisiologico, l’impasto letterario diventa quindi materia nobile che si realizza in un discorso corale debitore di quella tradizione, tutta partenopea, di saper gestire il dramma con il cuore.
Maleuforia è un romanzo che sa prendersi i giusti tempi, coniugando il senso d’accoglienza del classico alla sfacciataggine del contemporaneo. In questo s’ha da apprezzare ancor di più la virata tonale di una seconda parte più introspettiva, amaramente malinconica, che si dispiega nell’entrata in scena del Cavaliere. Nuovo tutore di Lèmon, anziano imprenditore d’alto borgo, quest’uomo marchiato dal lutto proverà in ogni modo a contenere l’ardore della nuova lei trascinandola tra le mura della sua villa a ridosso del mare. Ma la fiaba non è la realtà e in tutto questo cercar di circoscrivere, contenere, di rievocare ciò che è stato della sua consorte passata nel corpo della giovinetta, in questa vana speranza di relegare il nuovo germoglio alla vetusta teca, ecco che la storia è finalmente libera di esplodere in tutta la sua estatica, incontenibile, bramosia di vita.
Il grido di Maleuforia è di alfabeto comprensibile a tutti: a ogni repressione non potrà che seguire una ribellione, perché al dito puntato non va più data importanza e anch’io, qui lo confesso, come Lèmon, nel realizzare questo pensiero semplicesemplice, al momento di salutare questi compagni di viaggio «ridevo e piangevo, piangevo e ridevo senza curarmi della sua presenza, senza preoccuparmi di apparire un po’ matta.»
Che sia questo smottamento di viscere il veronome della nuova letteratura?
Stefano Bonazzi
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Maleuforia
Deborah D’Addetta
Giulio Perrone Editore
20,00 euro — 352 pagine