Prima di spender anche solo una parola su Nero celeste, l’ultima opera data alla luce da Enrico Sibilla (e mi si perdoni l’azzardo, dato che in questo romanzo di luce ve n’è ben poca), doverosa è la premessa: folle e futile sarebbe cercare anche solo di riassumere la vastità di un romanzo la cui trama si prefigge di abbattere i confini dello spazio, del tempo, della materia stessa che compone il creato.
Folle, quanto sforzarsi nel riassumere con una sola parola il caleidoscopico sfolgorio cromatico presente nel raggio rifratto dalla punta di un prisma e chi scrive ve lo dice a cuore aperto: è stato necessario lasciar trascorrere più di un mese dal termine della prima lettura, prima di poterne parlare, un mese in cui le immagini espressioniste generate da questo vortice creativo hanno sedimentato e prolificato nel subconscio, partorendo suggestioni ibride e tentacolari quanto i rigurgiti di una visione lovecraftiana.
I mostri di Sibilla però, hanno ben poco a che spartire con l’aldilà o con creature prive di raziocinio, tutt’altro, qui l’eterna dicotomia bene/male si combatte nel grembo silenzioso di una cattedrale (San Pietro) dove la vita umana è ridotta al baluardo del più alto esponente clericale.
L’ultimo papa e il suo fedele servo Florentin, in lotta contro l’ultimo “Hitler della Storia” che, nella sua figura scheletrica, incarna il concetto stesso di un male superiore che è sempre e comunque genesi e opera di mano umana. Sarà bene prepararsi dunque, perché nell’inarrestabile macchina narrativa imbastita dall’autore, le pagine trasudano inchiostro al pari di catrame liquido, un humus denso e oscuro che cola e si condensa in un fluido di onniscienza metafisica a cui ogni luce è preclusa.
«L’ultimo Hitler del mondo avanza portando gli ultimi bambini del mondo: tiene il primo per mano, che tiene per mano il secondo, che tiene il terzo che trattiene il quarto, e così via fino a formare una breve fila di trentasei figurine che mareggiano tutte, rigide e bianche come le sagome che si ritagliano da un foglio piegato più volte. Si tengono come durante una gita o una giornata al museo: per non disperdersi, per riconoscersi come bambini.»
Se l’unico modo per salvarsi all’eterno conflitto/supplizio pare celato nell’avvento di un’entità «libera e astratta», ai posteri resterà il lascito di un’intelligenza “nuova”, artificiale, priva di ogni limite strutturale o iconografico, slegata da ogni fazione o pregiudizio ereditato da un passato che, la storia ne è conferma, ha saputo arrecar solo pene e dolori.
Il tempo della guerra è giunto al termine, Il Santo Padre, nudo e avvizzito, si lascia calare all’interno dell’ultima visione.
«…egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi…»
«…e non ci sarà più la morte…»
«…né cordoglio, né grido, né dolore…»
«…perché le cose di prima sono passate».
Servendosi di una libertà d’impaginazione che non si pone limiti tipografici o spaziali (dalle cascate di terminologiche, al cantico spennellato nel mezzo di una pagina bianca), Sibilla modella la sua prosa eccentrica dimostrando totale padronanza di tematiche arcaiche (l’eterno conflitto bene/male) al pari di argomenti ben più attuali: dalla mancata paternità al peso dell’eredità umana in un mondo che di umano non ha saputo preservare nulla.
Stretti tra le mura di questo confessionale le cui pareti, specie nella parte iniziale, paiono stringersi al ritmo del supplizio perpetuato, l’autore non si accontenta di adagiarsi sugli allori di spiegoni consolatori da serie tv, non tratteggia sorrisi digitali sul viso di robottoni antropomorfi dal facile appeal emotivo tutt’altro, la sua è una (pre)visione che ferisce, destabilizza, scoperchia vasi di Pandora con una maestria e un’eleganza che attrae e (deo gratias!) sfida il lettore alla comprensione di una storia finalmente “Nuova” seppure saggiamente debitiera di visioni ballardiane.
Maestose, imponenti cattedrali le cui architetture si erigono su fondamenta di corpi umani, baluardi dell’ultimo culto ricavati alzando «pareti magre di malta e cartone», mentre i cingolati si ammassano all’esterno in uno stridio che ricorda il belato di pecore elettriche e finzioni borgesiane così come di molta cinematografia di confine (la plumbea estetica di Under the Skin, richiamata nei paragrafi iniziali o alle asettiche roccaforti spaziali di kubrickiana memoria).
Spostando l’asse temporale e gravitazionale, dall’iniziale conflitto apocalittico/teologico dei primi capitoli, la “Storia” dell’eterna lotta si frappone alle memorie delle ultime consapevoli/inconsapevoli vittime sacrificali. Personaggi frutto di una fervida immaginazione che non smette di stupire, disvelandosi e reinterpretandosi, si susseguono lungo tutto l’arco narrativo. Dall’astronauta Pflanzenwelt, alla bambina nata con una grave patologia e costretta a trascorrere la sua vita all’interno di un polmone d’acciaio fino al suo lancio nello spazio, la pletora di voci è variegata, includendo anche figure storiche reali, ahimè, vittime di una scienza pionieristica che non si è fatta scrupolo di testare limiti umani e animali in favore dell’ennesimo traguardo scientifico: si pensi allo sventurato cosmonauta Vladimir Komarov della Soyuz 1 oppure allo scimpanzé Ham The Astrochimp imbarcato sulla Mercury 2 e lasciato solo in balìa di un’accelerazione gravitazionale che lo ha consegnato alla storia a scapito della sua completa distruzione emotivo/psicologica.
«Solo per un istante lo scimpanzé riesce a guardare fuori dal minuscolo oblò che ha davanti. È meno di un secondo ma il tempo e lo spazio si fermano e il momento si dilata. NUMBER 65 vede tutto. E il tutto è: niente. Fuori di sé trova solo l’orrore spaventoso del vuoto, l’assenza totale di vita al di là della propria, e per la prima volta comprende di essere soltanto una circostanza fortuita e irresoluta, un ordinamento di elettroni casuale e deperibile.»
Paradossalmente, quando ormai ogni speranza pare diluita nella pece magmatica dell’oblio eterno, sono queste ultime, le pagine dove il testo si concede maggiormente all’empatia.
Tratteggiando l’iter di una malattia che ha lentamente, inesorabilmente, trasformato una bambina in una sorta di icona votiva, attraverso gli scambi serrati tra una madre e un padre sempre più distanti, ormai capaci di ritrovarsi soltanto nella solitudine della malattia condivisa, oppure nello straziante, meticoloso resoconto dell’iter preparatorio di uno scimpanzé inconsapevole del destino che lo attenderà di lì a breve, Sibilla ci consegna pagine il cui peso specifico potrà esser compreso solo dopo la giusta sedimentazione. Sono pagine queste di un’intensità emotiva rara, stimolanti, ingombranti quanto monoliti di kubrickiane fattezze e, come tali, composti dalla stessa (anti)materia.
Manufatto complesso, appagante, meritevole di svariate riletture, il romanzo di Enrico Sibilla fa tabula rasa del “prima” gettando nuove coordinate “qui, ora”. Nero celeste assume dunque le sembianze di un costrutto dalla prodigiosa visionarietà profetica, agghiacciante e ammaliante quanto il centro dell’abisso di nicciana memoria da cui sembra esser stato generato.
«Vivremo, dunque».
«E quello che voglio».
«È quello che è».
«Dunque viviamo».
Lo Screaming Pope di Francis Bacon sta ancora urlando. Gli occhi trasfigurati nell’estasi del tormento, la bocca spalancata sul baratro di uno spazio muto, dove ogni stella s’è smarrita.
Nero celeste è questo.
Stesso buio, stessa dannazione.
Stefano Bonazzi
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Nero celeste
Enrico Sibilla
Alessandro Polidoro Editore
18,00 euro — 329 pagine