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Presenza

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Ieri Fabio, invero scrivendomi di tutt’altro, ha evocato un libro che ho letto nel 1977, avevo vent’anni. Lo acquistai a Napoli con Alfonso, (mi par di sentirlo: Lù, noi non abbiamo niente da fare, ma non teniamo un minuto libero); allora ero dominato da una certezza filosofica che oggi mi pare ridicola se non patetica. Quel voluminoso testo (curato da Clara Gallini) si intitola “La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali.”

Una lettura-evento per me e la scoperta del “mestiere” di Ernesto de Martino (offuscato allora solo dai suoi esordi fascistoidi). Niente di ciò che avevo attorno, dopo aver “visto” il suo metodo fu, come era prima, senza-nome.

Alcuni di quei saggi li dovremmo rileggere e forse sapremmo come togliere il velo alle imposture del presente.

Ecco la parola di Ernesto de Martino: p r e s e n z a.

Che cosa intendeva con questo termine? L’esserci: «progettarsi, possedersi, raccogliersi, singolarizzarsi», quindi “presenza” e “Dasein” sono termini che si accolgono a vicenda e si possiedono com-penetrandosi, così come l’umano che agisce verso un domani non può eludere il proprio già esserci stato che si presenta secondo una immedicabile genealogia in qualità di obbligo, debito o ineludibile fardello. Una prigionia insomma da cui emanciparsi.

Infatti de Martino successivamente al termine “presenza” (prae-sum) proporrà una volontà dinamica che nominerà giustamente “presentificazione”, consegnandole una valenza prossima al processo, al tempo che viene, e, se non avessi paura di essere frainteso, direi all’avvenire.

Ora, de Martino aveva fin troppo evidente in mente che tutte le culture (anzi le civiltà) non potevano temporalmente appartenere che alla durata interminabile della loro crisi; non solo, egli aveva chiaro che ogni vita umana è sotto il dominio perenne (dalla culla alla bara) della crisi, però con una clausola che può salvare: «… l’esserci è sempre in un “far differenza” che fa essere l’esserci, mentre il non poterla fare equivale allo scomparire della presenza.»

Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo” dice Antonio nell’orazione funebre, ma aggiunge: “Il mio cuore è lì nella bara con Cesare”.

Mi pare sia questo il funerale politico insopportabile e senza dignità che abbiamo di fronte e nel contempo la pedana degli eredi per l’umano slancio vitale: far differenza.

Luca Sossella

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