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Un libro in grado di suonare come un riff di Jimi Hendrix. Intervista a Gianfranco Di Fiore

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Gianfranco Di Fiore è nato ad Agropoli nel 1978. Ha lavorato per il cinema e la pubblicità, in Italia e all’estero, come sceneggiatore e art director, collaborando per anni con il Giffoni Film Festival. Laureato in filosofia, attualmente insegna storia e filosofia al liceo. Cresciuto in una famiglia di musicisti, ha esordito nel 2011 con il romanzo La notte dei petali bianchi (Laurana Editore – finalista al Premio Rhegium Julii e EsorDire 2012), ha pubblicato racconti in varie antologie: Storie di martiri, ruffiani e giocatori (Caratteri Mobili Editore 2012), Cronache vere, souvenir d’Italie (Piano B Edizioni 2013), Sotto un altro cielo (Laurana Editore 2013), Piccola inchiesta sul provincialismo (Galaad Edizioni 2017). Nel 2018 viene candidato al Premio Strega da Marcello Fois e Diego De Silva, con il romanzo Quando sarai nel vento (66thand2nd – finalista lo stesso anno al Premio Flaiano, vincitore del Premio Internazionale Marzani e nel 2019 del Premio Wojtek al Flip Festival di Pomigliano D’Arco). L’amore inutile è il suo terzo romanzo (Wojtek Edizioni), ed è stato candidato al Premio Strega 2023 da Valeria Parrella.

Mario Schiavone

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Da lettore forte quale sei, al momento, come vedi lo stato di salute dell’editoria contemporanea in Italia?

Per poter dare un parere significativo, altamente consapevole, riguardo allo stato di salute di questa o altra editoria dovrei essere un medico, avere ampie e certificate competenze, possedere un codice analitico universale, riconosciuto, in grado di permettermi di studiare e valutare il paziente su basi scientifiche; ma io non posseggo né voglio dannarmi l’anima per arrivare a sviluppare una visione e una conoscenza accademica del fenomeno editoriale e di nessun altro fenomeno, più o meno culturale che sia. Giudicare un sistema dall’interno è sempre difficile, soprattutto se ne fai parte o ti senti legato a esso: qualsiasi variazione valutativa, gesto, parola, errore o miglioria da te apportato rischia, anzi, sicuramente modifica il sistema stesso, e si è sempre in ritardo nella rincorsa alla verità – concetto che trovo poco interessante. Da studioso di filosofia non credo poi alle accademie, alle definizioni rigide, per quanto siano necessari e utili i luoghi “comuni”, intesi quali ambiti di condivisione, di vita e riflessione in comunanza (e di certo le redazioni, le scuole di scrittura, tutti i luoghi dell’editoria creano spazi comuni, più o meno interessanti da frequentare). Io però non trovo entusiasmante e utile, per me, stare all’interno del pensiero condiviso: cosa c’è di più comune e condivisibile di un paradigma? E l’editoria, almeno come concetto, come categoria, paradigma lo è per definizione; diciamo che io al massimo mi limito a essere un infermiere, un portantino, gravito senza peso né pesi nei corridoi editoriali, osservo i pazienti come me e i colleghi molto più esperti e, ogni tanto, da pochissime persone, mi capita di ascoltare più che altro giudizi o riflessioni ardite e definitive su questo stato di “salute” editoriale, e sono discorsi che mi annoiano parecchio. Come corpo, come meccanismo, come sistema va da sé che l’editoria è un apparato complesso, ha le sue funzioni da espletare, che non sempre avvengono con linearità o naturalezza, e in parte vive – questo macchinario – di automatismi, di scambi e relazioni che non si modificano nel tempo e che, assimilati ormai alla nascita, si ripetono per tirare avanti. E ci sono idee, certo, un “corpo” produce idee ma io non ne sono coinvolto, non partecipo ormai a eventi o manifestazioni editoriali, frequento pochissime persone dell’ambiente, non mi sento così importante al punto da pensare di essere necessario per i processi e le strategie editoriali, insomma, non penso a cosa l’editoria fa o può darmi… al massimo penso e mi concentro su ciò che io posso dare, posso fare, nel mio piccolo, per questo strano apparato. Non so poi come tu intendi la definizione editoria contemporanea in Italia, se cioè mi chiedi cosa ne penso della produzione italiana (le opere degli autori italiani attuali) o se ti preme sapere cosa penso di ciò che l’editoria italiana pubblica in generale, su vasta scala. E in più mi chiedo: che spazio hanno o devono avere i numeri in questa valutazione? A quanto pare, negli ultimi anni il numero dei libri venduti è aumentato, post-covid diversi milioni di copie in più sono state annunciate dagli addetti ai lavori. La “salute” quindi pare esserci, sembra buona; nascono editori nuovi, nuovi festival e premi spuntano in ogni dove: io non sono nessuno per analizzare, contraddire o giudicare questi numeri. E i numeri credo abbiano a che fare con classifiche, titoli di giornale, progetti economici, io non mi occupo di questo, non mi interessa, e niente di questo può definire, formare, sublimare, sminuire o determinare la qualità di un libro, di un testo.

Non essendo un “medico” non so dunque né mi interessa valutare la “salute” di questa nostra editoria; da “infermiere” posso solo buttare un occhio a questo o quel degente, e di certo lo faccio, e pochi mi sembrano in forze, molti stanno lì a piangere, acciaccati, senza soldi, senza stipendi, senza anticipi, senza pagare le tipografie, senza contratti da offrire… molti li osservo in rianimazione da anni, non danno alcun segnale, altri deambulano nei corridoi, ammiccano, salutano, tu ti giri a pensare “ah però… stanno meglio!” e dopo un attimo crollano, imprecano per le loro scelte e riprendono a piangere, come gli altri. E poi ci sono quelli che stanziano ai piani alti, nelle camere-in, facoltosi, potenti, e lì le malattie quasi mai colpiscono mortalmente, si trova sempre un antidoto, un modo, quelli dei piani alti riescono sempre a venirne fuori. Come sono questi libri, dunque? Cosa ne penso di questi malati che partoriscono romanzi uno dietro l’altro? Se devo riferire rispetto alla produzione italiana non ho nulla da dire, perché poco o nulla leggo di essa, a volte sfoglio e subito richiudo, atre volte mi sforzo di più ma richiudo subito lo stesso. Mi pare che all’estero contiamo poco o nulla, e quelli che dall’estero arrivano da noi sono tutti fenomeni (ovviamente non per me!). Di chi è la colpa? Non lo so, come ti ho detto non sono un medico, e di solito i medici sono ottimisti, dicono che va tutto bene, come i numeri di cui sopra confermano. Preferisco pensare allo stato di “salute” dei miei libri, della mia scrittura, e posso dirti che li trovo in forma.

Quali sono gli autori italiani e stranieri, viventi e non, che reputi canonici per la tua formazione di appassionato lettore di storie in prosa?

Ti sembrerà strano ma non cerco, o quanto meno, non ho mai volutamente trovato i miei riferimenti dentro la letteratura. Ho iniziato a scrivere per il cinema, lavorando in quel mondo volevo diventare un regista, pensavo per immagini, speravo un giorno di poter scrivere i film che avrei voluto dirigere. E soprattutto ho appreso, prima ancora della grammatica italiana, la grammatica musicale, essendo nato in una famiglia di musicisti di tradizione secolare: ho cominciato a studiare musica all’età di 5 anni, a scuola ho cominciato a 6, e la musica più di tutto ha condizionato il mio scrivere ed è stata necessaria alla comprensione del mondo. Ovvio che leggo tantissimo, sempre meno di quanto vorrei, se potessi passerei la mia vita a leggere, molto più che a scrivere; amo tantissimi scrittori: John Fante, Knut Hamsun, Jack Kerouac, Erskin Caldwell, Ring Lardner, Sherwood Anderson, Peter Handke, Thomas Bernhard, Pedro Gutierrez, Sergej Dovlatov, Sebald, Cheever, Tondelli, Gadda, Berto, Knausgard, Olivier Adam, Rick Moody, Saul Bellow, Richard Yates, Aria, Donoso, Paz, Capote, Asturias, Mutis, Nàdas, Thomas Wolfe, Josephine Hart, Amy Hempel, Agota Kristof, Jeanette Winterson, Lorrie Moore, A.H. Homes, Richard Powers, Moresco, Volponi, Bianciardi, Ortese, Morante, Morselli, Rilke, Christoph Hein, Henry Miller, Palahniuk, J. G. Ballard, Flannery O’Connor, Christa Wolf, Céline, Tim Winton, Scott Spencer, Jane Hobhouse, Colum McCan, Richard Ford, Hrabal, Kafka, Carver, Bukowski, Arnon Grungberg, Walter Siti, Salinger, Philipp Meyer, Henry Roth, Onetti, McCarthy, Faulkner, Steinbeck, Kawabata, Mishima, Mo Yan, Whitehead, Soriano, DeLillo, McEwan e Foster Wallace e potrei continuare all’infinito. Questo elenco, non esaustivo, è per dire che sono tanti gli autori che amo, che rileggo, ma quando scrivo, quando penso a una storia, se lavoro a un’idea, a un plot per un romanzo, allora penso sempre che vorrei scrivere un romanzo che abbia il tocco di Wong Kar Wai, un libro in grado di suonare come un riff di Jimi Hendrix o come un assolo di Rory Gallagher o un glissato di Chet Baker; quando immagino una storia per un romanzo immagino i colori di Ghirri, le atmosfere di Salgado, vorrei poter realizzare un romanzo con la geometria dei luoghi di Sammallahti o delle architetture di Libeskind, una storia che possa incidere nelle coscienze come un paragrafo di Essere e Tempo; realizzo le scalette dei miei libri ripensando ai piani-sequenza di Malick, vivo il mio stare nella scrittura non come un elettrone che gravita sulle orbite della letteratura ma come un osservatore che al microscopio prova a guardare più materie dall’esterno, a tenere insieme più linguaggi, più codici, lascio transitare davanti alla lente dei miei occhi significanti e segni diversi, corpi e sostanze che appaiono fra loro distanti e diverse e che io voglio strenuamente tenere insieme, saldare, mescolare, pur rischiando di fallire con i miei esperimenti.

Qual è stato il primo libro che hai letto e che ti ha invogliato a leggerne altri?

Non ricordo quale sia stato il primo libro (di prosa, immagino tu intenda) che ho letto, però posso dirti che il romanzo che mi ha travolto, che ha ordinato la mia instabile emotività e mi ha accompagnato per anni, ancora adesso ne leggo pagine e lo sfoglio nei momenti di scoramento, o di particolare gioia, è stato Il giovane Holden. E più che invogliarmi a leggerne altri, Salinger mi ha imposto – con la sua articolata e puntuale esemplificazione narrativa – la rilettura ossessiva di questa e altre sue opere; ho passato molto tempo a rileggere, a soffermarmi sui dettagli, a riascoltare il suono delle frasi all’interno dei suoi romanzi e racconti; credo di aver letto centinai di volte Un giorno ideale per i pesci banana, e per certi versi questo e altri suoi racconti mi hanno prima avvicinato, poi allontanato dalla scrittura per anni: non mi sentivo pronto, sapevo di non poter in alcun modo realizzare da me quel tipo di atmosfera, non avevo la capacità né di pensare né di immaginare e ancora meno di comporre storie che contenessero un così alto tasso di verità, di noia utile, di esasperante attesa, di malinconia attiva, di drammatica esistenza ancora da vincere, o da accettare. E poi sono passato alla famiglia Glass, e ho sentito per anni l’esigenza di stare in quelle vite, di abitare con quella famiglia, di accettare l’idea che forse scrivere non era soltanto raccontare una storia, intrattenere un pubblico, inventare delle situazioni: scrivere, come per Salinger, doveva essere vivere un’altra vita, inventarsene una propria, in un altrove lontano dall’umanità. E credo che poi, alla fine, anche lui si sia sentito più infermiere che medico.

Qual era la via di accesso ai libri, da piccolo, per te che abitavi in un paese del sud senza librerie e biblioteche?

A Paestum, dove ho vissuto gran parte della mia vita, non c’è mai stata una libreria né una biblioteca: patrimonio dell’Unesco, una città nota in tutto il mondo, si è sviluppata per quasi 2500 anni lontano dall’odore dei libri, orfana di storie e poesie scritte; la prima libreria a Capaccio-Paestum è stata aperta un anno fa, e io che sono nato nel 1978 ho trascorso infanzia e giovinezza costruendo capanne, correndo in bici e in motorini con le marmitte truccate, spossandomi sul campo da calcio, dietro la chiesa, entrando e uscendo dalle sale giochi e le discoteche; e quando ero costretto a stare a casa, per il maltempo o soprattutto la sera, tra i 6 e i 12 anni, ho trascorse ore e ore a leggere i volumi dell’enciclopedia. Il mio unico accesso ai libri, da piccolo, passava dalle pagine dell’enciclopedia che mio padre aveva comprato a rate. Ero ossessionato dalla Storia, e dalle biografie degli scrittori e dei personaggi famosi; in particolare, leggevo spesso la sezione che trattava degli animali, cercavo di studiare il loro comportamento, volevo essere pronto e saggio per le mie uscite, andare con i miei amici negli orti a raccogliere lucertole o sulla montagna e lì – dopo aver incrociato rettili e insetti e uccelli e farfalle – avrei potuto condividere le mie conoscenze zootecniche. Poi c’era una cartolibreria, poco distante dalla piazza principale, adesso è proprio difronte casa dei miei, e lì ogni tanto compravo – con 1000 lire – delle edizioni economiche di alcuni classici ma non erano, all’epoca, delle letture per me soddisfacenti. La carta scadente, le impaginazioni approssimative, le orribili copertine, la mancanza di cura verso quei libri e quelle storie mi respingeva; penso di aver sottovalutato e odiato diversi romanzi classici proprio perché editati senza amore. Le uniche letture felici di quel periodo riguardano i romanzi di Kafka. La maggior parte delle storie a cui mi appassionavo mi venivano raccontate, erano assimilate nella sala giochi, tra il fumo delle sigarette e le bestemmie dei giocatori di goriziana. Mi parlava la vita, mi parlavano le persone, più dei libri. Quando ero di pessimo umore mi spostavo in salone, chiudevo le porte e prendevo il volume dell’enciclopedia intitolato: I paesi extra-europei. Guardavo le foto del deserto, leggevo le didascalie sotto gli scatti del Rio Grande, mi interessavo a ciò che era distante da me e che al tempo stesso era vero, reale. Avevo bisogno di cose certe, di evidenze, inventare (storie) era ciò che non sapevo fare e che mi spaventava. Avrei dovuto studiare ancora molto, prima di mettermi alla prova con la finzione.

Quanto la formazione scolastica avuta da giovane ha alimentato la tua voglia di leggere e scrivere storie?

Non credo la mia formazione scolastica abbia influito sulla voglia di scrivere; in maniera considerevole ha influito sulla voglia di capire, di studiare, di viaggiare, di sentirmi continuamente ignorante e manchevole, forse ha condizionato la mia necessità di leggere, di leggere tanto e cose diverse, di avvicinarmi a linguaggi e a estetiche differenti. Ho avuto la fortuna di avere sempre professori preparati e di grande umanità; in modo particolare il mio professore di storia e filosofia, al liceo, ha impresso una svolta decisiva al mio so-stare tra i libri. La mia esigenza era più quella di riuscire a comprendere, o di poter cambiare punto di vista sulle cose, sui fenomeni, non volevo assorbire nozioni e informazioni sotto forma di verità assolute, non era decisivo per me immagazzinare, sapere, possedere cultura ma capire davvero il mondo in cui vivevo, imparare a decifrare i segni e le situazioni dentro cui mi ritrovavo a vivere, essere in grado di cambiare idea, di produrre da me delle altre verità; volevo sentirmi attivo, necessario, avevo bisogno di leggere e analizzare e decifrare a modo mio, di creare a modo mio, di leggere a modo mio, mi illudevo di poter arrivare un giorno a scrivere a modo mio: avere uno stile, ciò mi interessava davvero, e ingenuamente all’epoca pensavo che non fosse primario leggere romanzi, leggere tanto o esercitarsi a scrivere, provare la scrittura, mettersi alla prova con le parole e la pagina bianca. Sentivo di dover studiare molto, e così lo studio era lo strumento, il mezzo da usare per studiare meglio.

Rispetto ai tuoi libri pubblicati, che giudizio daresti al tuo percorso autoriale in Italia rispetto al ruolo di critici letterari e rispetto a quello degli editori che hanno curato e pubblicato i tuoi libri?

Riguardo a come la critica letteraria ha recepito la mia ricerca estetica (non penso mai per singoli libri, non vivo la scrittura come un lavoro o una produzione da suddividere in romanzi a sé stanti, ma come una ricerca continua, un progetto aperto all’interno del quale le mie opere aggettano come planimetrie, piantine, bozze e moduli di un’unica grande storia da costruire) non posso lamentarmi, anzi, ho sempre ricevuto ottime critiche, buone recensioni, dentro e fuori gli ambienti ufficiali delle redazioni di quotidiani e riviste di settore: la mia opera, sino a ora, ha ricevuto commenti, analisi, lodi e giudizi sempre molto puntuali e positivi, spesso il mio nome è stato accostato a grandi nomi della letteratura e del cinema, e lo stesso feedback positivo ho ricevuto da lettori occasionali o amici e parenti che di solito non leggono o leggono poco. Non so però questo quanto possa valere o significare, ho pubblicato il mio primo romanzo nel 2011 a poco più di 30 anni ma ne avevo già scritti 4 in precedenza, erano anni che trattavo con gli editori, che ricevevo rifiuti (cosa che succede ancora, per fortuna, ciò vuol dire che la coerenza del mio percorso continua ad avere un senso); ho esordito così al mio quinto romanzo, il mio stile era già abbastanza consolidato, sapevo cosa facevo, come adesso sono perfettamente conscio di come lavoro, cosa voglio e posso fare. Fanno piacere i complimenti, o il tentativo di sistemare la mia opera all’interno di una griglia di definizioni lusinghiere, ma non ci penso più di tanto, non pretendo attenzioni, non vivo di entusiasmi da lode continua, né tanto meno mi deprimo se i miei libri non vengono apprezzati dal pubblico (cosa a dire il vero mai successa fino a ora) o se gli editori li rifiutano (cosa invece che avvieni, ora più che in passato, con sistematica puntualità).

Ho pubblicato sempre con editori diversi, e ciò non so dire se sia una mia colpa o una condizione impostami dagli editori, se non sono io in grado di portare avanti dei rapporti professionali stabili o se gli editori non credono fino in fondo nei miei libri o in me, come persona e scrittore. Lo dirà il tempo, di certo non ho mai pensato di poter vivere scrivendo, di scrivere per la fama, di trovare nella scrittura e quindi nell’editoria chissà quale dimensione comoda: di libri, buoni o meno buoni, se ne pubblicano tanti, e tanti editori possono farlo, è giusto così; ma un romanzo come Quando sarai nel vento l’ho scritto solo io, nessun altro, e non solo in Italia: e anche questo non so se sia un merito o un dettaglio trascurabile. Anche su questo sarà il tempo a stabilirne la portata.

Come – e quando – lavori alle tue storie da scrivere rispetto ad altri lavori svolti per sbarcare il lunario?

Negli ultimi anni la mia vita è molto cambiata. Fino a qualche tempo fa, non avendo un lavoro fisso, e non impiegando il mio tempo per cercarne uno, mi sono dedicato unicamente alla scrittura. Ho passato un lungo periodo, durato oltre dieci anni, a lavorare ai miei libri, a viaggiare, a vivere unicamente in funzione delle storie che volevo scrivere; ciò mi ha permesso di perdermi e ricercare molto per il mondo, e al tempo stesso mi ha dato modo di recuperare il rapporto con la mia città, che da anni avevo abbandonato. Sono rimasto chiuso in casa, lavorando oltre undici ore al giorno, per quasi dieci anni, in questo periodo ho scritto i miei ultimi tre romanzi e ho accantonato qualsiasi idea di vita, o di vita diversa. Ho sacrificato relazioni potenziali e affetti, conoscenze o frequentazioni che avevo comunque modo di vivere, ma che non potevano né dovevano in alcun modo ostacolare il processo creativo e il ritmo routinario della mia esistenza. Terminata questa fase dovevo capire come e con chi pubblicare i romanzi a cui avevo dedicato tempo e risorse, e mentre passavo di stesura in stesura mi addentravo nel mondo imperscrutabile delle trattative editoriali (non avendo a oggi un agente, devo fare tutto da solo) e devo dire sono stati anni molto duri, sfiancanti, eppure proficui.

Quasi tre anni fa poi ho cominciato una vita diversa, iniziando a lavorare nella scuola, e ho praticamente smesso di scrivere, non avendo modo né tempo di potermi dedicare alla scrittura, per quelli che erano stati i miei ritmi e le modalità del passato, e ho accantonato le mie storie. L’ho fatto anche in nome dell’amore, sperando potesse portare qualcosa di bello e anche di buono, nella mia vita e per la mia scrittura; e invece poi l’amore è finito, e forse la cosa buona è che magari fra qualche anno, chissà, potrò avere una buona storia da scrivere.

Che consigli daresti a un aspirante scrittore italiano che viene a bussare alla tua porta di casa nel 2024?

Davvero non saprei cosa consigliare a uno scrittore, oggi. Forse gli direi di trovare un lavoro sicuro, di stabilizzare la sua vita, di non aspettarsi nulla dai libri, dalle case editrici, dai colleghi, di non farsi condizionare dai numeri, dal mercato, dalle mode, di ridimensionare le notizie e le apparizioni dei e sui social, di scrivere solo ciò che sente, di leggere molto, di leggere bene, di non dimenticare l’amore, di innamorarsi perdutamente, soprattutto di chi ama e legge e sostiene i suoi libri e le delusioni che comportano. Gli direi di non occuparsi e non parlare solo di libri, e diffidare di chi parla e vive solo di lavoro. Gli direi di andare spesso al cinema, di guardare molti film, di ascoltare tanta musica, di credere nei sogni, proprio come bisogna credere nei progetti da realizzare. Non penso di poter dire molto altro, sono più i rifiuti (giusti e legittimi) che ricevo, rispetto ai consensi editoriali; forse non sono io lo scrittore a cui va rivolta questa domanda.

Di cosa tratta il tuo ultimo lavoro letterario ancora inedito e cosa desideri per questa storia.

Il mio ultimo romanzo è un libro che mai avrei pensato di scrivere. Si tratta di una storia autobiografica, ma non ho ancora capito se riguardi l’autofiction o altro. Ho vissuto per un periodo in Irlanda, ero andato lì, come in tante altre parti del mondo, in cerca di lavoro… e invece tutto ciò che di buono son riuscito a trovare è stata una storia per scrivere un libro, ma anche dei cari amici. È un lavoro particolare, un’opera che rivela solo una parte di me, forse, ma che racconta una società, un’isola, un sistema economico e sociale e antropologico con un occhio diverso, uno sguardo che probabilmente trasfigura, annichilisce, sporca, adombra, deforma quell’immagine di isola se non felice quanto meno in crescita, in salute, che l’Irlanda comunica da anni, e che molti degli scrittori irlandesi raccontano da un po’, offrendo al lettore dettagli e verità diversi e per me poco realistici. Io lì ho trovato e visto e vissuto altro; credo l’Irlanda sia un gran bel posto del cazzo, un buco sommerso di merda ed erba e pioggia, e per questo perfetto come paesaggio e contenitore dove ambientare un mio libro.

Che valore ha, per te, il gesto antico di leggere e scrivere storie, in questa epoca complessa?

Domanda troppo difficile, o forse sarebbe giusto dire che non mi piace parlarne; è una domanda cui faccio fatica a rispondere, per uno strano senso del pudore, o di resa che appare sempre imminente. Per me la scrittura è la manifestazione certa di un limite, il fenomeno di un handicap non visibile. Fatico a stare nel mondo, non mi piacciono spesso le persone, non mi interessa cosa hanno da dire se la loro incoerenza è superiore alla necessità del racconto: non voglio essere costretto a essere simpatico o accogliente solo per un certo perbenismo finto borghese, in cui non mi rivedo. Scrivo perché non so vivere (come gli altri). Ma penso esistano peccati peggiori.

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