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Michela La Grotteria anteprima. Tutte le giostre che ho chiamato casa

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Oltre le apparenze: “Tutto in Annette sembrava posticcio. I suoi capelli che erano scuri ma non proprio neri qua e là erano intrecciati in minuscole trecce fermate da un elastico trasparente”.

Sorprese karmiche: “Annette, Nadia l’ha trovata in casa, il giorno della visita. La ricerca di un alloggio a Parigi era talmente disperata che si era ridotta a dover affittare non una stanza, ma un lato del letto di una sconosciuta”.

Questioni di gusto: “A Nadia le persone molto estroverse, i buoni ascoltatori davano la noia. Avrebbe voluto che il suo fosse cinismo, del tipo non credere che nessun essere umano possa sinceramente interessarsi alla vita altrui, ma doveva constatare con fastidio che la sua era probabilmente invidia”.

È in libreria Tutte le giostre che ho chiamato casa di Michela La Grotteria (Perrone editore 2024, pp. 250, € 18,00).

Michela La Grotteria, nata a Genova nel 1999, ha conseguito la laurea in Italianistica e Culture letterarie europee a Bologna, città in cui risiede attualmente. I suoi racconti sono stati pubblicati su diverse riviste, tra cui Altri Animali, Bomarscé, Grado Zero e Blam!. Lavora come interprete freelance dal francese e collabora con alcune testate culturali. Tutte le giostre che ho chiamato casa è il suo primo romanzo, con il quale ha vinto il premio Walter Mauro.

Nadia ha ventitré anni e sta per concludere l’università. Tutte le questioni irrisolte e i fantasmi del passato, da cui è fuggita negli ultimi cinque anni spostandosi da una città all’altra, tornano a galla, costringendola a confrontarsi con loro. Il lutto per un’amica mai del tutto elaborato, una relazione a distanza ormai logora, amici sparsi in giro per il mondo: tutto contribuisce a farle sentire il peso di aver sempre lasciato che gli altri guidassero le sue scelte, fino a farla sentire opaca, annullata, assente. Arrivata a Parigi per un lavoro temporaneo, Nadia inizia a rivivere le tappe del suo scivolamento verso il disequilibrio, cercando una linearità che non trova altrove attraverso un diario. Fondamentale è l’incontro con la coinquilina Annette, che le insegna la bellezza del disordine, del mettersi in discussione e del vivere in bilico, in punta di piedi, senza mai cadere.

Tutte le giostre che ho chiamato casa è un romanzo frammentato che, attraverso i vari episodi della vita di Nadia, dipinge un ritratto di una generazione piena di incertezze, con la valigia sempre pronta e un futuro ancora da definire e nell’impossibilità di mettere radici: ogni nuova casa è come una giostra, che dura il tempo di un giro, prima di ripartire e raccogliere i frammenti della propria vita.

L’autobiografia di una generazione senza sosta.

Carlo Tortarolo

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Nadia ripensa a quella telefonata con Edoardo, due giorni prima.

Ti pesava tanto, chiedeva Edoardo quella volta al telefono, e io non sapevo cosa rispondere, e il gatto aveva perso stima e rispetto per me e forse avrebbe deciso di ignorare il pentolino e nutrirsi da solo, d’ora in avanti, di non dipendere più da noi due. Il gatto non è mio, comunque. Neanche di Annette. Vive nel cortile del palazzo e a volte scala la parete ed entra in casa, e Annette dice che non sarà mai tanto stronza da non dare asilo a chi lo chiede, così ora ha una sua poltrona e un pentolino dove gli mettiamo il latte.

Io gliene voglio davvero a Edoardo perché gli invidio la quiete. La quiete nella non speranza quella no, lui ha quiete e speranza mentre io non ho nessuna delle due e annaspo. Le risposte gli vengono facili a domande che non si è posto, la sua mente risolve i problemi prima che si presentino mentre la mia li genera, apre le pompe di un liquido scuro e angoscioso e la mia piscina si gonfia e lei fa un passo indietro per vedermi annegare. Edoardo vuole vivere dove ha sempre vissuto e mi vede partire e tornare in punti diversi e si gode lo scorrere ciclico delle stagioni e io gli voglio bene per questo. A volte dice: vorrei vivere in Canada, ma io non credo che ci andrà e forse lui sì ma non fa niente per andarci. È silenzio, fiducia.

Il punto non è volerlo e neppure andare. Il punto è accettare le cose che vengono e non desiderare quelle che non ci sono date e io invece cerco tutto voglio tutto afferro tutto per il tempo di un inspira, espira, poi via.

Mi ricordo di quella volta al mercato, Annette che dice, è ridicolo accanirsi sulle cose, quelle che non vengono da sole non sono fatte per te, ma per qualcun altro.

Per chi è fatta la mia vita, per chi, per chi, scrive Nadia. La biro lascia una scia collosa di inchiostro.

Ti pesava tanto, ha chiesto.

E chissà se io e Edoardo ci troveremo nella stessa città, penso sempre, lui dice di sì ma io penso che. Che una città per racchiudere entrambi non esiste perché lui vi cercherebbe quello che lascia e io qualcosa di nuovo mai visto mai fatto eppure giusto. E quando penso così, lo chiamo e lo lascio. Edoardo non capisce mai, pensa sia un problema di insicurezza.

Ti pesava tanto, io non ho risposto.

Tu non capisci, gli ho detto dopo un po’.

Sì, capisco.

Mi veniva da piangere ma che figura ci avrei fatto, col gatto.

Ho paura, ho detto.

Di cosa?

Ho paura.

Ho affondato il viso nei palmi e poi mi sono sbriciolata sul bancone della cucina. Divido la casa con Annette ma lei non c’è mai, solo la sera, e io posso fare cose come quella, sul bancone.

Sono qui, non me ne vado, ha detto.

Okay, ho detto. Non c’era altro da dire, ma un treno da prendere due giorni dopo.

Noi ci amiamo, ha detto.

Mi sono tirata su a sedere sul bancone e pensavo che l’amore è un costrutto particolare. Che non si può mai dire dove inizi e dove finisca con certezza, e con chi finisca, perché sono convinta che il numero di persone da amare sia esauribile. L’amore mi è facile riceverlo ma difficile darlo, alle persone, agli oggetti no, è molto naturale. Ci sono ciotole di ceramica smaltata nella mia parte di credenza che mi sembra di amare con disperazione.

Noi ci amiamo, ha ripetuto.

Va bene, ci amiamo, ho detto.

Sì.

Ora devo studiare.

Se ti senti male ci sono, ha detto.

Va bene.

Ho messo giù, ho dato da bere alle piante. C’era ancora una valigia da chiudere e avrei dovuto sedermici sopra. Le mie due valigie e zaino e pochissimi vestiti non sono aumentati in questi tre mesi, se non per un paio di jeans e uno di mocassini. Le valigie però ora sono tanto pesanti di libri che mi dovranno accompagnare in stazione.

Lo chiederò ad Annette, anche se.

Nadia smette di scrivere, chiude il quaderno. Per qualche ragione la scrittura le viene bene solo se retrospettiva, ma non al presente. Preferisce sempre la narrazione alla confessione, forse perché Annette, nei tre mesi in cui sono state coinquiline, le ha spiegato ben benino che da un punto di vista storico-antropologico la confessione è l’ultima forma di esercizio del potere cattolico che fa ancora presa sul popolo, t’es italienne, ha detto, dovresti saperlo. La remissione dei peccati non è roba da mortali, dice Annette, meglio godersela e non fidare troppo nel giudizio universale. Nadia le aveva risposto che era d’accordo, e le ha raccontato entusiasta della volta in cui, a otto anni, prima della comunione l’avevano portata dal prete e lei gli aveva chiesto di raccontarle i suoi, di peccati. Annette le aveva detto con un sorriso che di persone come lei dovrebbe essere pieno il mondo, e Nadia non era sicura se fosse stato un complimento o un atto di compassione.

Eppure, pensa ora Nadia, la confessione è il senso di un diario. Così, tre sere dopo, ci riprova, riprende a scrivere.

Ho preso il treno quarantasei ore dopo, scrive prima che la penna sputi le ultime gocce di inchiostro e si spenga, in mezzo alla pagina.

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