Da pochi giorni tornata nelle librerie con “Niente specchi in camerino” (Tsunami, pp286, €24), la giornalista milanese Valeria Sgarella si conferma come una delle voci italiane più autorevoli sul fenomeno (musicale ed extramusicale) del “grunge”, che, nonostante gli ormai abbondanti sei lustri dalla sua esplosione discografica e mediatica, continua ad avere migliaia e migliaia di cultori nel Belpaese e a fare proseliti tra le nuove generazioni. In occasione dell’uscita di questo suo quarto volume a tema, stavolta dedicato a una delle band più amate e compiante della scena, i Soundgarden, abbiamo cercato di indagare sulle radici della sua “magnifica ossessione”, oltre che di approfondire il ponderoso lavoro svolto per licenziare questa biografia dedicata al compianto Chris Cornell e soci.
Di nuovo sul “luogo del delitto”, Seattle. Essendo questo il tuo quarto volume dedicato alla scena musicale della città del nord-ovest del Pacifico, comincerei la nostra chiacchierata chiedendoti cosa ti spinge a tornare sempre, fisicamente e editorialmente, da quelle parti.
Dal mio primo libro su Andy Wood, che in tutta onestà credevo fosse un episodio isolato e senza un seguito, è stato tutto un succedersi di altre proposte editoriali. Da lì non ho praticamente mai smesso di scrivere, il che significa che questo segmento musicale – quello del grunge e/o Seattle Sound – ancora è fatto di un pubblico che ha…fame di letture. Io sono innanzitutto una giornalista e credo fermamente nell’importanza di andare a respirare e a toccare con mano le realtà di cui si parla. Vale per la musica, ma vale anche per tutto il resto, anche se i mezzi a disposizione spesso ci fanno pensare di non aver bisogno di muoverci. A Seattle mi porta dunque la mia necessità di… rinfrescare il materiale che utilizzo, perché la città è in costante mutamento; soprattutto, però, Seattle è ormai parte del mio cuore e, come qualsiasi cosa che si ama, non si può immaginare di farne senza.
Leggendo il tuo nuovo libro, ho molto apprezzato il fatto che il racconto non si sia fossilizzato sul triste epilogo della storia dei Soundgarden e che sia invece focalizzato sul making of della loro leggenda, tanto da spingerti, come tu stessa sottolinei, a fare un’importante ricerca sul campo per renderti pienamente conto delle vicende che stai narrando. Quanto influisce, secondo te, un approccio di questo tipo nella stesura di un libro biografico su una band rispetto ad una semplice collazione di informazioni (questo anche considerando che sono ormai passati sei lustri abbondanti dall’esplosione di quella scena)?
Io penso che chi legge la biografia di un artista o di una band che ama, sia in grado di capire se chi scrive ha fatto lo sforzo di immergersi nella vita della persona in questione oppure no. In linea di massima, è possibile realizzare ottime biografie utilizzando al meglio le informazioni disponibili, senza andarne a cercare di esclusive, e lavorando un po’ di fantasia. Ci sono fior di biografie scritte così. Io non sono fortissima nell’immaginare le vite altrui, quindi preferisco sempre interpellare i testimoni oculari di una scena, se non addirittura i diretti interessati. E non è detto che per farlo si debba viaggiare; si può fare comodamente anche da casa con costi quasi pari a zero. Ma a questo punto mi devo ricollegare alla risposta precedente. Anche perché è vero che dall’esplosione di quella scena ormai sono trascorsi decenni, ma chi ancora vive a Seattle e ha visto nascere quella rivoluzione, credimi, ha ricordi molto nitidi, e ascoltarli è impagabile. Ascoltarli là, poi, è proprio il massimo.
È stato difficile conquistare la fiducia dei membri superstiti della band per ottenere le interviste il cui contenuto così ben sostanzia il tuo lavoro? Con chi di loro ti sei trovata meglio e, vista la tua ormai autorevole esperienza in materia, in che modo si azzerano certe “distanze” con quelle che, pur nella loro informalità, sono a tutti gli effetti delle rockstar?
Proprio perché Seattle è ormai un luogo del cuore, è subentrato un rapporto di reciproca stima tra me e alcune delle persone che fanno parte di quel mondo. Quindi, quando ho inoltrato la richiesta al management dei Soundgarden per le interviste a Thayil e Cameron (Shepherd ha declinato l’invito), loro hanno ritenuto che le mie referenze fossero abbastanza forti. Erano i giorni in cui sembrava che le questioni legali tra la band e la famiglia di Cornell stessero arrivando a una conclusione amichevole, e dunque puoi immaginare la mia felicità nel poter anche solo sognare un nuovo album dei Soundgarden con il materiale postumo di Cornell, anche se sapevo di non poter fare domande specifiche a proposito. Purtroppo, un anno dopo, siamo ancora in alto mare.
Ma c’è una storia nella storia. Durante l’intervista, Thayil mi disse che, ai tempi del concerto della band al Velvet di Rimini (locale in cui la band suonò nel tour del 1989), cercò di portare a casa un poster del locale che gli piaceva, che però gli era stato fregato dall’allora sound engineer, Stuart Hallerman. Io ho preso a cuore la causa e ho fatto in modo di procurarmene uno. Poi gliel’ho consegnato personalmente a Seattle. A Matt Cameron invece ho parlato solo in video, ma, trattandosi di una delle persone più amabili e disponibili del music business mondiale, sono pronta a dire che, così come Thayil, anche lui sia distantissimo dai cliché delle rockstar.
Per chi scrive, la scena di Seattle è da ritenersi a tutti gli effetti l’ultima convenzionalmente intendibile nella storia della musica rock, considerando non solo gli aspetti musicali ma anche il fenomeno di costume, di aggregazione sociale e soprattutto di valori condivisi che ha rappresentato. Se sei d’accordo, come ti spieghi quello che, a tutti gli effetti, è ormai un vuoto ultratrentennale? Se non lo sei, ci puoi indicare invece, sempre rimanendo in ambito rock, da cosa è stata seguita?
Il movimento musicale di Seattle rimarrà sempre un fenomeno irripetibile per via dei fattori ambientali, politici, discografici e di controculture che l’hanno plasmato. Tuttavia non definirei “vuoto pneumatico” quel che è seguito. A New York, a partire dai locali dell’East Village, a cavallo tra gli anni ’90 e i primi anni Zero, è successa una cosa analoga. Band completamente diverse tra loro ma affini a livello …ambientale si sono ritrovate in un movimento nuovo di zecca, ben definito nel libro Meet Me In The Bathroom di Lizzie Goodman (da cui è stato tratto un bellissimo documentario). Una corrente partita da una New York discograficamente morta, poi brevemente risorta per poi ripiombare prepotentemente nella morte nera con l’attacco alle Torri Gemelle. Un movimento che partiva dal desiderio di fare da contraltare alla malinconia del grunge, si è trovata a fare da colonna sonora al peggior momento del mondo occidentale, così come lo conoscevamo. Band come The Strokes, LCD Soundsystem, Interpol sono cresciute, per loro stessa ammissione, con Seattle nelle orecchie. E se è vero che per molti aspetti il movimento newyorkese è stato apparentemente più vacuo e superficiale del suo predecessore, quel che ha rappresentato nella storia della musica, anche per via della rivoluzione digitale con cui ha dovuto fare i conti, rimane per me un capitolo molto affascinante della musica degli ultimi vent’anni. E poi, anche quel movimento è andato a braccetto con la morte. Anche se molti di loro sono ancora vivi.
Siamo a una domanda che, alla luce della tua conoscenza di questo ambito a sette note, può non essere considerata il classico interrogativo da “un milione di dollari”: che cosa è stato davvero il “grunge”? Musicalmente e non solo. E qual è la sua eredità nel 2024?
Una geniale operazione di mercato operata da gente che non aveva nulla da perdere, con molto talento alla mano, e con molto, ma davvero molto amore per la scena locale, e il desiderio di farla uscire dai confini del Nord Ovest Pacifico. L’eredità del grunge, nel 2024, sta tutta negli anniversari e nelle ristampe dei dischi, e nel fatto che, dopo trent’anni, ancora siamo qui a chiederci cos’era veramente il grunge.
Nelle pagine di “Niente specchi in camerino” si fa spesso riferimento al ruolo cruciale rivestito da Susan Silver nell’ascesa di Cornell e soci e di diverse altre band (Alice in Chains su tutti). Questo mi porta a chiederti come mai oltreoceano un tipo di management attento a preservare l’etica dei propri assistiti abbia potuto aver prodotto nello stesso tempo successo e dignità artistica, mentre invece qua da noi anche solo immaginare l’esistenza di questo binomio appare impossibile? E già che ci siamo: ti piacerebbe un giorno riuscire ad “agganciare” questa straordinaria e lungimirante professionista per una lunga intervista da trasformare magari poi in un libro?
Susan Silver è una figura di enorme importanza, e non solo per il suo ruolo da manager: è infatti una vera pioniera della scena ed è stata d’aiuto anche a molte altre band che non gestiva direttamente (vedi: Nirvana). Anche se non sono riuscita ad averla come interlocutrice per questo libro, essendo lei una persona molto poco propensa a rilasciare interviste, la mia stima per lei rimane intatta. In merito all’integrità dell’artista, non credo di saper rispondere a questa domanda. Sono sicura che anche in Italia ci siano stati – e ci siano tuttora – esempi di integrità artistica in presenza di un successo commerciale. Il fatto è che il concetto di “integrità artistica” è molto sibillino in un contesto musicale in cui, pur agendo da indipendenti, è praticamente impossibile fare a meno delle piattaforme di streaming.
Come emerge dal tuo racconto, quello tra i Soundgarden e l’Italia fu un rapporto particolare e intenso fin dalle sue origini. Nel raccogliere tutte le numerose informazioni al riguardo che leggiamo, che idea ti sei fatta (a me, ad esempio, ha molto colpito il resoconto del live nel mitico Uonna Club di Roma)? E soprattutto hai trovato piena collaborazione da parte delle persone alle quale ti sei rivolta per le tue ricostruzioni o, in qualche modo, hai dovuto fronteggiare degli atteggiamenti da “iniziati duri e puri” come spesso accade quando si cerca di far luce su certi argomenti?
Le persone delle varie associazioni che a suo tempo organizzarono le date dei Soundgarden, in primis Paolo Bedini di Baracca & Burattini (allora AZ Music) che mise in piedi il tour del 1989, mi hanno parlato molto volentieri di quei concerti e di tutto il lavoro fatto, spesso in condizioni pessime e con pochi mezzi. L’aspetto più bizzarro e più affascinante di quei concerti era il contesto politico e sociale che la band non era assolutamente in grado di decifrare. In quel periodo i Soundgarden in Italia si trovarono a suonare in palestre, balere, bar di quart’ordine, scantinati, ma altrettanto spesso in centri sociali e/o realtà autogestite, a cui erano legate spesso campagne di sensibilizzazione o proteste. La data di Pisa, quella del Macchia Nera, per esempio, era stata voluta dai Radicali di Taradash, che stavano portando avanti una campagna per la liberalizzazione delle droghe leggere. La band era totalmente all’oscuro di questa faccenda e anni dopo ne parlava ancora con stupore. Non ho riscontrato atteggiamenti da iniziati duri e puri da parte della gente che ho intervistato; piuttosto ho avuto modo di notare, ancora una volta, quanto l’Italia dei circuiti alternativi avesse già i radar molto accesi su Seattle ancor prima del grande botto, grazie alla presenza di una brulicante fanbase che a sua volta era molto ricettiva verso quella città, e soprattutto grazie a organizzatori e gestori di locali lungimiranti, disposti a prendersi quelle responsabilità. Anche smenandoci dei soldi.
Ho avuto la fortuna di vedere i Soundgarden in azione alla Brixton Academy di Londra nell’ormai lontano 19 settembre 2013. Quella sera, forse anche in virtù dello strabiliante supporting act dei Graveyard, non sono riuscito ad apprezzare fino in fondo la loro celebratissima esplosività dal vivo. Dalle testimonianze che hai raccolto per questa tua fatica, in che cosa si sostanziava la loro grandezza? E, considerando tutti gli aspetti della loro parabola, quale ritieni sia stato lo scarto più significativo applicato da Cornell e soci al cosiddetto “modello Seattle” e, più in generale, alla musica rock che li ha seguiti? Pensi possano essere considerati un gruppo seminale?
Contrariamente ai Nirvana, che inorridivano nel vedersi accostati al “modello di Seattle” (anzi, hanno sempre cercato di prenderne le distanze, salvo poi trovarcisi dentro fino alla punta dei capelli), i Soundgarden hanno scelto di farne parte nell’unico modo possibile: dissacrandolo. Esattamente come dissacrarono i cliché del mondo metal, a cui la stampa, ma anche i fan della prima ora, cercarono di associarli. Personalmente, credo che la loro grandezza consistesse nel dettare le regole; nel fare in modo che fosse il music business a inseguire loro, e non viceversa. Sin dai primissimi anni della loro attività, era chiaro che volessero innanzitutto costruire una fanbase solida e devota, lavorando con le etichette indipendenti che secondo loro avevano una credibilità artistica (Sub Pop, SST), evitando di darsi in pasto alla prima major che li corteggiasse. E poi, quando l’hanno fatto, hanno scelto la A&M Records, che di fatto, allora, non era ancora una major. E devo dire che quest’atteggiamento loro l’hanno sempre portato avanti anche facendo scelte impopolari, come per esempio quella di andare in tour con i Guns N’Roses. Nel libro spiego bene (perché Kim Thayil me l’ha spiegato bene) in che modo quel faticosissimo tour sia stato funzionale alla fanbase e alla reputazione dei Soundgarden.
Inoltre, un altro aspetto che li ha resi grandi, fu la loro volontà di non fornire appigli pop e/o di costume, di star lontano dai pettegolezzi e dalle faide. Ok, Cornell saliva sul palco stracciandosi la maglia ed esibendo quello statuario torso nudo. Soprattutto, era fidanzato (e poi sposato) con la sua manager. Ma nonostante questo ci troviamo di fronte alla band meno supponente e trasgressiva di Seattle. Come dicevano loro stessi: “Siamo sesso, droga e rock and roll, senza sesso e droga”.
Negli ultimi anni, particolarmente nell’immediato post pandemia, il mercato dell’editoria musicale ha visto un notevole proliferare di titoli dedicati non soltanto a band di chiara fama planetaria, come per molti anni è accaduto, ma anche a gruppi e interpreti di culto ben meno noti. Come ti spieghi questo fenomeno (tu che con il tuo volume su Andy Wood ne sei stata di sicuro una “anticipatrice”)? A quale esigenza risponde, più che altro?
Lo spiego con una teoria che non è certamente farina del mio sacco, bensì del compianto Steve Albini. Che pressappoco dice questo: un livello al di sotto delle grandi corporazioni musicali come Spotify, Amazon e Youtube che smuovono un sacco di soldi, c’è tutto un immenso sottobosco di musica da fruire gratuitamente, e a cui si accede con facilità; chi è alla ricerca dei più disparati generi musicali può trovare una piccola grande nicchia con cui condividere questa passione in modo semplice e partecipativo. In pratica, ce n’è per tutti, e quello che prima era un mercato molto legato alle uscite discografiche, ora è legato alle ossessioni e alla rapidità che si ha nell’alimentarle, vista la quantità enorme di materiale a disposizione. Questo ha fatto in modo che anche l’editoria cominciasse a considerare pubblicazioni più di nicchia, impensabili fino a qualche anno fa. La frammentazione degli ascolti, insomma, ha portato in qualche modo anche alla frammentazione delle letture. Devo dire però che Tsunami, la casa editrice con cui ho pubblicato Niente Specchi in Camerino, questi rischi li ha sempre corsi. Anzi: la mia bio sui Soundgarden probabilmente per loro rientra nella categoria “mainstream”.
Avendo letto tutti i tuoi libri, ho notato una tua (per me piacevolissima) tendenza a licenziare testi caratterizzati da un ritmo narrativo sempre serrato ed asciutto. Tenendo presente la loro lunga gestazione, volevo chiederti qual è il tuo approccio alla scrittura. Sei una che arriva piuttosto velocemente, se non immediatamente, a una forma definitiva della tua prosa o quello che leggiamo è il frutto di un paziente labor limae? E, già che ci siamo, hai punti di riferimento in qualche modo imprescindibili quando cominci a digitare parole sulla tastiera (sia per quanto concerne la saggistica musicale, sia in generale)?
Non ho una scuola di scrittura alle spalle. Ho lavorato su testi radiofonici per più di vent’anni, il che mi ha sempre imposto il ritmo serrato e asciutto di cui parli. Tuttavia, questo stile non mi è stato – e non mi è – d’aiuto, perché è più orientato verso i podcast, che verso la saggistica. Men che meno, verso la narrativa. Sono portata a scrivere testi che prima o poi qualcuna o qualcuno leggerà. E se da un lato questo stile è perfettamente al passo coi tempi, dall’altro può risultare un po’ sterile. Nel descrivere certe dinamiche che hanno a che fare col mondo di Seattle, che notoriamente è stracolmo di drammi, assenze e morti premature, può far sembrare che io sia poco empatica. Detto questo, ogni tanto cerco di copiare da gente molto più brava di me. Violetta Bellocchio, per esempio: una campionessa olimpica nell’inserire il tema musicale in qualunque anfratto della sua narrazione, anche la più ruvida e violenta. Cito anche Claudia Durastanti, anche lei, per me, una penna sopraffina. Oppure Caitlin Moran, una delle poche giornaliste/narratrici musicali capace di legare la musica a una chiave umoristica. Non per nulla è inglese.
Vorrei chiudere questa nostra conversazione chiedendoti se, dopo esserti cimentata fino ad ora soltanto nella saggistica, ti viene mai in mente di tentare la scrittura di racconti o di un romanzo. Io dico che, data la qualità di quello che ho letto prodotto dalla tua penna, ne varrebbe la pena.
Non ho in programma per ora la scrittura di un romanzo: certe vite sono già di per sé un romanzo.